Negli ultimi tempi è sempre più accesa la discussione intorno all’acquisizione della cittadinanza italiana, soprattutto per quanto riguarda i figli di stranieri nati sul territorio o che hanno studiato in Italia, acquisendo di fatto la cultura e la loro riconoscibilità in questa. A tal proposito, per sostenere le teorie della destra contrarie allo ius solis, il Ministro dell’Agrioltura, Francesco Lollobrigida, ha chiamato in causa addirittura i metodi di acquisizione della cittadinanza romana. Secondo le sue dichiarazioni, infatti, questa veniva elargita agli “stranieri” solo dopo una lunga fedeltà alla città e alla sua realtà politica. Ma è proprio così? Non esattamente.
Prima di tutto è bene chiarire che non è assolutamente possibile semplificare il concetto con poche parole e convinzioni veicolate ad hoc, considerando la lunga storia di Roma che, come realtà politica autonoma ha una vita lunga tredici secoli. Questo vuol dire che il procedimento ha subito diverse modifiche nel corso degli anni, rispondendo alle esigenze culturali che si sono andate formando fino alla fine dell’Impero, iniziato con Augusto e terminato di fatto nel 476 d.C. quando viene deposto l’ultimo imperatore d’Occidente Romolo Augusto.
Tenendo in considerazione tutto questo, dunque, vediamo i diversi modi con cui, nel corso del tempo, è stata acquisita la cittadinanza romana.
Diritto di nascita
Prima della sua espansione il problema di attribuire la cittadinanza allo “straniero” non era stato considerato. Questo vuol dire, dunque, che si diventava di diritto civis romanus in caso di nascita all’interno di un matrimonio legittimo tra cittadini romani. Anche in quel tempi, però, non erano rari i casi di unioni miste o addirittura, le nascite fuori dal matrimonio. In questo caso cosa accadeva effettivamente?
Se il matrimonio avveniva tra un romano e una latina, i figli nati dall’unione erano automaticamente romani. Se, invece, a sposare uno “straniero” era una donna, avrebbero preso la cittadinanza del padre. In questo caso, dunque, ci troviamo di fronte ad un diritto che va a limitare la condizione femminile.
Cosa, però, che non accade nel caso di un’unione considerata “non legittima” e, quindi, con una nascita fuori dal matrimonio. In questo caso, infatti, a prendere il sopravvento è proprio la parte femminile. Se la madre è cittadina romana, il nascituro lo sarà in modo automatico nonostante quella straniere dal padre. Lo stesso, invece, non si può dire a parti inverse.
La situazione cambia con Adriano che, tramite un senatoconsulto, attribuisce il titolo di civis a qualsiasi bambino nato dall’unione tra romani e latini.
I liberti e la cittadinanza
Un caso particolare è rappresentato dalla condizione degli schiavi e dalla loro liberazione. Questi, infatti, potevano diventare cittadini romani rispondendo, però, a tre requisiti ben precisi: dovevano avere trent’anni, aver avuto un civis come padrone ed essere stati affrancati sotto la supervisione d un magistrato. In questo caso, poi, i nuovi cittadini rimani acquisivano tre nomi, che che ne evidenziavano la precedente schiavitù.
La cittadinanza per merito
Il concetto di merito per ottenere la cittadinanza romana agisce soprattutto in ambito militare. Gli stranieri, infatti, potevano arruolarsi solamente nelle unità ausiliarie, ma dopo 25 anni di servizio si riceveva come premio di pensionamento il diritto di cittadinanza romana. In questo modo poteva sposare legalmente anche una straniera dando così riconoscibilità alle diverse famiglie formatesi nel tempo.
In questo caso, però, l’aspettativa della cittadinanza veniva utilizzata dal governo e dalle strutture militari stesse per andare a formare un sentimento di lealtà verso la causa romana.
Il processo di romanizzazione
Con l’ampliamento dei territorio si presentano nuove necessità. Tra questa anche quelle d’inglobare le popolazioni conquistate andando a creare non odio e xenofobia, ma assimilazione e appartenenza. Per questo motivo, dunque la cittadinanza romana inizia ad essere elargita ad intere comunità e non più ai singoli individui. Ecco, dunque, la promulgazione di leggi che, in un primo momento, concedevano la condizione di latino e, in seguito, lo status superiore di cittadino romano ai membri dei nuclei urbani che dimostravano un legame con la realtà culturale romana come, ad esempio, la lingua e il rispetto delle leggi. In questo modo, dunque, si garantiva una presenza costante nelle legioni romane, mentre i personaggi influenti dei gruppi indigeni potevano governare le città senza che l’etnia di appartenenza costituisse un problema.
L’editto di Caracalla
Per la civiltà romana il concetto stesso di “straniero” termina ufficialmente nel 212 d.C. con quello che viene conosciuto come l’editto di Caracalla. Tale decreto concede la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’Impero. Un risultato che era stato anticipato e celebrato anni prima anche dall’oratore Elio Aristide. In un suo elogio a Roma, infatti, pronuncia queste parole:
Né i mari né le terre sono un ostacolo sulla strada della cittadinanza, l’Europa e l’Asia non sono trattate diversamente. Tutti i diritti vengono riconosciuti a tutti. Nessuno di coloro che meritano potere o fiducia ne è escluso.
In sostanza, dunque, anche gli antichi romani avevano compreso quanto fosse vincente e inevitabile l’inclusività. Bizzarro che, dopo tanti secoli, l’uomo politico moderno stia ancora dibattendo sull’argomento, cercando di dimostrare esattamente il contrario. Sopravvivremo a tutto questo? Ai posteri l’ardua sentenza.