Il 20 luglio 1969 l’umanità ha compiuto un’impresa epocale: il primo sbarco sulla Luna con la missione Apollo 11. Le immagini scattate da Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla superficie lunare sono sia degli importanti documenti scientifici che dei simboli di un traguardo senza precedenti. Ma come sono riusciti a catturare fotografie così nitide in un ambiente così estremo? Ecco tutti i segreti della tecnologia avanzata a cui hanno avuto accesso questi astronauti, che hanno potuto così immortalare un momento determinante nella storia dell’astronomia e dell’umanità stessa.
Al centro del successo fotografico dell’Apollo 11 c’erano le fotocamere Hasselblad, modificate per affrontare le sfide del vuoto lunare. La NASA scelse il modello Hasselblad 500EL, noto per la sua robustezza e qualità ottica, ma riadattato per l’uso nello spazio. Le lenti, progettate dalla tedesca Carl Zeiss, erano il cuore del sistema: in particolare, l’obiettivo Biogon 60mm f/5.6 garantiva immagini nitide e prive di distorsioni, essenziali per documentare scientificamente il paesaggio lunare.
Le fotocamere furono sottoposte a modifiche radicali: per resistere alle temperature estreme della Luna (da -180° C all’ombra a +100° C al sole) e al vuoto spaziale, esse furono rivestite con vernici termoriflettenti e dotate di lubrificanti speciali per evitare il congelamento o l’evaporazione. I comandi furono semplificati: grandi pulsanti e leve permettevano agli astronauti, con i loro ingombranti guanti, di operare senza difficoltà. Inoltre le fotocamere non avevano un mirino tradizionale, poiché il casco degli astronauti rendeva impossibile accostare l’occhio all’apparecchio: le immagini venivano inquadrate “a occhio”, con gli astronauti addestrati a puntare il corpo verso il soggetto.

Le fotografie dell’Apollo 11 furono scattate su pellicola Kodak Ektachrome, una pellicola a colori ad alta sensibilità progettata per resistere alle radiazioni cosmiche e alle condizioni estreme. La NASA utilizzò rullini da 70 mm, più grandi del formato standard, per garantire una qualità superiore e dettagli eccezionali. Ogni rullino poteva contenere decine di scatti, e gli astronauti ne portarono diversi, cambiando i caricatori direttamente sulla Luna. Per proteggere la pellicola dalle radiazioni, i rullini erano custoditi in contenitori schermati.
Armstrong e Aldrin non erano fotografi professionisti, ma furono addestrati per mesi a usare le Hasselblad in condizioni simulate: la NASA organizzò queste sessioni in ambienti che replicavano il suolo lunare, insegnando loro a comporre immagini sotto la luce solare diretta, priva di atmosfera e quindi estremamente intensa. La luce lunare creava ombre nette e contrasti marcati, un aspetto che rendeva le foto tanto spettacolari quanto difficili da realizzare. Gli astronauti impararono a regolare l’esposizione manualmente, basandosi su tabelle preimpostate per diverse condizioni di luce.
Le fotocamere dovevano essere leggere ma robuste, poiché ogni grammo contava nel carico della missione; in più, gli astronauti avevano solo poche ore a disposizione per completare le attività sul suolo lunare, incluse le fotografie, il che richiedeva un’efficienza straordinaria. Ogni scatto era pianificato: la NASA fornì una lista di soggetti prioritari, come il modulo lunare Eagle, il paesaggio e gli esperimenti scientifici. Un’innovazione fondamentale fu il montaggio delle fotocamere sul petto degli astronauti, tramite supporti speciali: questo permetteva infatti di scattare senza usare le mani, lasciando gli astronauti liberi di muoversi e raccogliere campioni. Il pulsante di scatto era azionato con un gesto rapido, e l’avanzamento della pellicola era motorizzato, riducendo il rischio di errori.