Il terremoto in Irpinia del 1980 è una pagina di storia che resterà scolpita per sempre nei ricordi di chi c’era e nelle testimonianze di chi l’ha vissuto e potuto raccontare: il 22 novembre 1980, alle ore 19.34 di una domenica come tante, un sisma di di magnitudo 6.9 deflagrò in tutta la sua potenza nell’Italia centro-meridionale e devastò l’Irpinia e la Basilicata, ma causò danni pesanti anche a Napoli e fu avvertito persino nel Lazio e in Puglia. Di seguito abbiamo raccolto alcune testimonianze di quella giornata, alcune delle quali anche ironici o spiazzanti, che rendono bene l’idea dell’atmosfera e dell’ansia che si respirava quel giorno nelle aree fuori dall’epicentro.
Anna Mazzei aveva solo 4 anni ma ricorda bene che i suoi, nel darsi alla fuga, la lasciarono a casa, seduta sul bidet. “In casa c’eravamo io e mia sorella Angela, di pochi mesi, i miei genitori e i nonni materni. Mia madre in cucina parlava con i suoi, mio padre, appassionato di musica, era in salotto con le cuffie e mia sorella era nel box a giocare per i fatti suoi. Io invece ero in bagno. Ad un certo punto iniziai a sentire il bidet che si muoveva fortissimo, ma non ebbi paura. Poi sentii mia mamma che gridava “Gennà… prendi Angela!” Prima che mio padre, con le cuffie e la musica nelle orecchie si rendesse conto della situazione e prendesse mia sorella dal box per scappare, mia madre era già giù al palazzo con i suoi. In casa c’era il silenzio più assoluto e io ero ancora seduta sul bidet. Se ne erano andati senza di me, e quando se ne resero conto tornarono indietro a prendermi. Ancora oggi sostengono che non sia andata cosi, forse per la vergogna e i sensi di colpa. Io c’ero e ricordo come se fosse ieri. Ma quello che mi lascia perplessa da sempre, è che mia madre nello scappare ha detto a mio padre di prendere mia sorella. Si era dimenticata di me.
Alessandra R. aveva nove anni e si trovava all’aeroporto dell’Aeronautica, a Latina, dove lavorava suo padre, per una cena che si teneva al Circolo. “C’era una tavolata enorme, tutti gli adulti da una parte e i bambini dall’altra. Ad un certo punto gli adulti scappano di corsa fuori e rimaniamo noi bambini dentro. Mio fratello mi fa: “Guarda su” e mi indica gli enormi lampadari di cristallo che ondeggiavano. Poi quegli stronzi si sono ricordati di avere dei figli e sono tornati dentro. E poi ricordo il ritorno a casa, con una nebbia fittissima. Nei giorni successivi mio padre organizzò una raccolta e comprarono una roulotte che portarono giù per chi ne aveva bisogno. Ricordo l’immagine di Pertini tra le macerie. Molti morirono a causa dei soccorsi non organizzati e dopo nacque la Protezione Civile. Una mia amica di Avellino fu sbalzata fuori casa e nel terremoto, se non sbaglio, perse una cugina e uno zio”
Lucia F. racconta che aveva quattro anni ed era a casa della nonna, al Vomero, perché i suoi erano andati a sbrigare delle commissioni fuori città. “Mi trovavo al sesto piano, seduta al grosso tavolo ovale della sala da pranzo. La tv era accesa e io stavo ritagliando delle sagome di angioletti da una rivista della nonna, ricordo anche che erano delle sagome bianche su uno sfondo blu o scuro. E poi ci fu un rumore fortissimo e tutto iniziò a tremare, o meglio a oscillare. Nella mia immaginazione di bambina pensai che fossero “le giostre”. Mia nonna e mio zio erano in casa con me, credo in cucina, perché arrivarono a prendermi subito dalla sedia e ci rinchiudemmo in un armadio bianco che era nell’ingresso.
Nella concitazione di quell’attimo, Lucia sente qualcuno che dice “Amma murì” (dobbiamo morire) “Ma non ricordo chi le disse. Io non provai paura, non avevo capito che stava succedendo e continuavo a dire “nonna la casa fa la giostra!”
“Una volta finita la scossa mio zio mi prese in braccio e scappammo insieme a tutto il resto del palazzo giù per i sei piani” – prosegue Lucia – “Io da questo punto ricordo nitidamente di vedere tutto dall’alto: le teste delle persone che gridavano scendendo in strada e poi giù sotto al palazzo, e tanta tanta folla di teste e capelli in movimento. Da qui in poi ricordo meno, sicuramente la delusione che la giostra fosse finita. E poi la notte al freddo sulla panchina di un giardinetto vicino (non saprei quale, immagino quello dietro Piazza Medaglie d’Oro). Negli anni a seguire, la nonna mi raccontava spesso che mi teneva in braccio e avevo la testa pesante: “Quanto pesava chella capuzzella”
La testimonianza di Lucia sul terremoto in Irpinia del 1980 non finisce qui però. “Nella fuga, il cane scappò e mia zia, figlia della nonna, era in discoteca. Tornando verso casa, incrociò il cane e lo riconobbe e così fu ritrovato. Quando tornammo a casa, ricordo le crepe sulle pareti e i grandi quadri che si trovavano in sala, tutti storti”
Il terremoto fu avvertito anche a Roma, come racconta Francesca Fiorentino: “Avevo cinque anni, non ricordo benissimo i dettagli, ma solo che mia madre ci fece uscire tutti. Il lampadario dondolava fortissimo e mio fratello portò con sé la radiolina, per essere sempre informato. Poi dice che una fa la giornalista”
Vincenzo Romano aveva 5 anni e si trovava a Napoli, al Vomero, a casa di sua nonna, in cucina: “Mi stava sbucciando una pera, su un piatto blu. All’improvviso tanta confusione: una sedia nel corridoio si sposta da sola. Mia nonna che grida “Enzo!”, mio nonno dice che “è o ‘ruoss”, sta succedendo qualcosa di grosso. Mi portano fuori casa, per le scale. Tutti scendono. “Nonna, ma dove andiamo?” “A una festa a nonna, a una festa”. Però non mi porta per mano, come al solito. Mi tiene sotto di lei, che sta piegata sopra e mi copra. E poi stiamo tutti per strada. Fa freddo e voglio mamma. Ma soprattutto voglio la mia pera! Da allora quando mangio una pera ci penso sempre, a volte preferisco non mangiarla. Col tempo ho capito che mia nonna mi faceva da scudo, nell’eventualità crollasse qualcosa. Quanto amore in quel gesto?”
Anche chi scrive ha vissuto quella serata indimenticabile e nonostante avesse 4 anni e mezzo, ha ricordi niditi di quello che successe e degli eventi successivi. Abitavamo a Napoli, nei pressi di Piazza Plebiscito. La domenica volgeva al termine, era una banale domenica come tutte le altre. Mia madre era in cucina e ad un certo punto da quella stanza arrivarono dei rumori, di qualcosa che cade. Da quel momento in poi ho vissuto tutto senza capire cosa stesse succedendo, ma vivendo tutto come un’avventura nuova, un qualcosa per il quale tutti erano impegnati a correre. I miei mi fecero indossare velocemente le ciabatte e poi si precipitarono fuori dal nostro appartamento, sul ballatoio, dove c’erano altre persone rannicchiate negli angoli, mentre la scossa, fortissima scuoteva tutto. Io, in braccio ai miei, non avvertivo nulla, però notai il grande lampadario al centro del pianerottolo che oscillava come il ciondolo di una collana. Passata la scossa, mio padre fermò il lampadario con le mani, poi ci precipitammo in strada. Trascorremmo la notte e anche la mattinata successiva a Piazza Plebiscito, nella nostra A112 bianca, insieme a tantissime altre persone che si erano radunate davanti a Palazzo Reale. Ricordo che guardavo le persone attorno a me, vicini di casa di solito sempre sorridenti, che piangevano e non capivo per quale motivo. Ero imbarazzato per loro e non parlavo, ma osservavo tutto. Qualcuno distribuiva qualcosa da mangiare, ricordo dei tramezzini, che per anni ho associato al terremoto.
La mattina dopo chiesi se potessimo tornare a casa, ma mi fu risposto che non era ancora possibile e che era pericoloso. A ora di pranzo eravamo ancora in macchina e arrivò un nostro conoscente, un signore anziano, che in sella alla sua bicicletta ci portò il pranzo. Nel cestino della bici aveva dei piatti di pasta e fagioli avvolti in un canovaccio e ce li passò attraverso i finestrini della macchina. Scoprii che non tutti i nostri vicini di casa erano scappati, alcuni anziani erano rimasti nei loro appartamenti. Chiesi perché e mia mamma sorrise, senza rispondermi. Capii che “i vecchi”, percepivano certi eventi in maniera diversa, come se non avessero davvero paura di morire.