Franco Basaglia è il neurologo e psichiatra che ha apportato una delle innovazioni più importanti per quanto riguarda le problematiche legate alla salute mentale. A lui, infatti, si deve proprio quella che viene chiamata la Legge Basaglia grazie alla quale sono stati apportati notevoli cambiamenti all’interno delle strutture psichiatriche per garantire la dignità e il rispetto del malato. In questo senso, dunque, i così detti manicomi sono stati chiusi a favore di luoghi effettivamente volti a migliorare la condizione psichica e a sostenere le debolezze dei pazienti.
Gli inizi
Nato a Venezia l’11 marzo 1924, dopo aver conseguito il diploma di Liceo Classico si iscrive a Medicina presso l’Università di Padova. Qui, però, non fa un percorso univoco. Accanto alle materie scientifiche, infatti, inizia ad interessarsi a temi filosofici, in particolare all’esistenzialismo e alla fenomenologia. Due tematiche che, in futuro avrebbero condizionato il suo lavoro di psichiatra e, soprattutto, la nuova concezione del malato.
Un processo, che dopo essersi specializzato in malattie nervose e mentali, inizia ad avviare nonostante l’ambiente ostile di Padova. La città e, in modo particolare, l’ambiente scientifico, abbraccia delle teorie positiviste e lombrosiane. In questo senso, dunque, si condivide l’idea organicista della malattia mentale che deriverebbe da tare biologiche ereditarie.
L’allontanamento dalla teorie tradizionali
Basaglia entra decisamente in collisione con tali teorie e, quasi in modo derisorio, dai suoi colleghi viene definito “il filosofo”. Dopo una visita alla comunità terapeutica di Maxwell Jones in Inghilterra, cerca di realizzare a Gorizia un esperimento simile rendendo paritario il rapporto fra gli utenti-pazienti e gli operatori sanitari. In sostanza Basaglia elimina l’aspetto fisico legato alla costrizione come, ad esempio, terapie con elettroshock e dei cancelli chiusi nei reparti. L’approccio avrebbe dovuto essere spostato nel rapporto umano con l’aiuto di sole terapie farmacologiche. In tal modo chi si trovava nelle strutture sanitarie doveva diventare persona da aiutare e non da recludere o isolare.
Un progetto, questo, che non è stato accolto con favore dalla città ma che Basaglia ha portato avanti istituendo all’interno degli ospedali dei laboratori di arte e organizzando delle cooperative per garantire ai malati un lavoro retribuito. Sforzi, però, che hanno costituito solo l’inizio di un lungo percorso. Secondo lui, infatti, il passo successivo doveva essere proprio la chiusura dei manicomi garantendo l’assistenza necessaria all’esterno attraverso una serie di servizi professionali a disposizione del malato mentale. In sostanza, questo voleva dire rifondare completamente la psichiatria.
Gli anni del cambiamento
Nel 1971 ottiene l’incarico di direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste, oggi Parco Culturale di San Giovanni. E due anni dopo la città venne indicata come zona pilota per l’Italia nella ricerca dell’Organizzazione mondiale della sanità relativa ai servizi di salute mentale. Successivamente, poi, fonda la società Psichiatria Democratica, con la finalità di riformare la psichiatria e proseguendo così nella diffusione in Italia dell’antipsichiatria, il movimento che si stava affermando a partire dal XIX secolo ed in particolare dalla seconda metà del XX.
Nel 1978, poi, arriva la vittoria di quella che viene ricorda proprio come la legge Basaglia. Grazie alla quale i manicomi vengono chiusi e cambia completamente l’approccio alla cura. Poco prima della sua morte, avvenuta nel 1980, dunque, riesce a vedere i frutti effettivi della sua visione che, anni prima aveva perfettamente riassunto con queste parole tratte dall’introduzione al libro La salute mentale in Cina:
Noi, i campioni della grande civiltà occidentale che rivendica i valori dell’individuo, dello spirito e della ragione, ci troviamo indeboliti e distrutti da un sistema la cui logica sopravvive sulla nostra debolezza, sulla nostra acquiescenza e sulla manipolazione di questa debolezza e questa acquiescenza. I valori assoluti che ci sono stati sempre proposti (vanto della nostra civiltà popolata di santi e di eroi) hanno agito – nella loro irraggiungibilità e disumana perfezione – come strumento di dominio attraverso il gioco della colpa in chi non riesce a realizzarli, e come addestramento al compromesso e all’accettazione della propria impotenza negli ostinati che tentano di farlo. La distanza fra assoluto e relativo, quando il valore proposto come unico sia assoluto, serve come strumento di soggezione, dipendenza, manipolazione; serve a rendere assolutamente relativa (quindi vuota, inutile, priva di significato) ogni azione agli occhi di chi agisce; serve a far accettare supinamente e acriticamente la condizione disumana in cui si vive.
Sposato dal 1953 con la scrittrice Franca Ongaro, ebbe due figli Enrico nel 1954 e Alberta, 1955, che non battezzò mai (pur essendosi sposato in chiesa). Morì nel 1980 a causa di un tumore al cervello.