Il 23 luglio di 68 anni fa si spegneva, per un tumore ai polmoni, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che con un solo romanzo fu in grado di conquistare l’immortalità letteraria: il suo Gattopardo, pubblicato postumo nel 1958, è infatti un capolavoro che dipinge con incantevole profondità il crepuscolo dell’aristocrazia siciliana. Il principe dietro questo libro fu un uomo complesso e riservato, uno studioso solitario e un osservatore acuto della storia e dell’animo umano. Raccontiamo qui la sua storia.
Nato il 23 dicembre 1896 a Palermo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa era l’ultimo discendente di un’antica famiglia aristocratica, i principi di Lampedusa. Figlio di Giulio Maria Tomasi e Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò, crebbe in un mondo di palazzi nobiliari, tra il capoluogo siciliano e il feudo di Santa Margherita di Belice. Dopo la morte della sorellina Stefania a soli 3 anni, la carismatica madre riversò tutto il suo affetto e le sue attenzioni sul piccolo Giuseppe. Si tratta di un legame che sarebbe diventato sempre più forte – e ossessivo – negli anni successivi, in seguito ad altri lutti in famiglia: la zia Lina morì in seguito al terremoto di Messina del 1908 e la zia Giulia fu accoltellata a morte dal suo amante pochi anni dopo.
Educato privatamente, Giuseppe si immerse nei libri, sviluppando un amore per la letteratura europea e in particolare per Shakespeare, Stendhal e Proust, che avrebbero influenzato la sua scrittura. Durante la Prima Guerra mondiale fu catturato e mandato un campo di prigionia in Ungheria, da cui fuggì tornando in Italia dall’adorata madre. Dopo la guerra viaggiò in Europa, affinando il suo gusto letterario e sposando nel 1932 la psicanalista lettone Alexandra Wolff Stomersee. I due erano uniti da un profondo affetto ed una grande affinità intellettuale ed ebbero un matrimonio felice, nonostante le incompatibilità caratteriali tra lei e la madre di lui, che morì nel 1946, e le disavventure vissute nella Seconda Guerra Mondiale, tra cui la distruzione del palazzo di famiglia a Palermo.

Tomasi di Lampedusa non si considerò uno scrittore fino a tarda età: solo negli anni ’50, ispirato da un cugino poeta e spinto dalla moglie, iniziò a scrivere Il Gattopardo. Ambientato durante il Risorgimento, il romanzo racconta la decadenza dell’aristocrazia siciliana attraverso gli occhi di Don Fabrizio, principe di Salina, un alter ego dell’autore. Con una prosa raffinata e un’ironia amara, Tomasi cattura il dramma di un’epoca che cambia, incarnato nella celebre frase: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi“.
Il romanzo riflette la sua visione della Sicilia: un’isola immobile, sospesa tra bellezza e inerzia. Scritto tra il 1955 e il 1957, Il Gattopardo fu rifiutato da diversi editori, tra cui Mondadori ed Einaudi, che lo giudicarono “inattuale”. Devastato, Tomasi non vide mai il suo trionfo: morì di cancro ai polmoni il 23 luglio 1957, a 60 anni. Fu solo un anno dopo, grazie all’intervento di Giorgio Bassani e dell’editore Feltrinelli, che il romanzo fu pubblicato, diventando un successo internazionale, tradotto in decine di lingue e adattato nel 1963 nel celebre film di Luchino Visconti.
Nonostante il suo lignaggio, Tomasi visse una vita modesta, segnata da perdite personali e dalla malinconia di un mondo aristocratico in dissolvenza. La sua timidezza e il suo carattere introverso lo resero un estraneo persino tra i parenti, che lo vedevano come eccentrico. La sua dedizione alla letteratura, coltivata in solitudine, fu spesso incompresa, e il rifiuto del suo capolavoro in vita fu un duro colpo. Eppure la sua capacità di osservare la storia con lucidità e di tradurla in arte lo rese un autore universale, capace di parlare a ogni lettore del cambiamento e della perdita.