Istvan Reiner, nato nel 1940 a Nyiregyhaza, era un bambino ungherese di soli 4 anni che fu ucciso dai nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz perché era ebreo. Gli fu scattata una foto in cui appare sorridente e anche un po’ intimidito, perché credeva che fosse un regalo, ma pochi giorni dopo fu ucciso nella camera a gas, diventando una delle piccole vittime dei campi di concentramento.
Istvan era il figlio di Livia Vermes (nata a Budapest nel 2018) titolare di una scuola di danza e di Bela Reiner. Livia aveva avuto già un figlio, Janos Kovacz, nato da un precedente matrimonio con Geza Kohn Kovacs, un ingegnere tessile. Considerato il clima politico di quel periodo, Bela si convertì al protestantesimo e Istvan non fu circonciso. Durante l’occupazione tedesca di Miskolc, alla famiglia Reiner fu detto che dovevano abbandonare la loro casa e andarsene in un ghetto. Bela voleva che Istvan andasse a stare da Ilona Vermes, una zia cattolica che viveva a Budapest, ma la donna, nonostante Istvan fosse tecnicamente cristiano, non se la sentì di correre il rischio di ospitare un bambino ebreo.
Il padre di Istvan riuscì a chiedere lavoro e ospitalità presso una fattoria, per tutta la famiglia, ma dopo poche settimane anche loro furono costretti a raggiungere gli altri ebrei radunati nel ghetto, che era sorvegliato costantemente da guardia ungheresi armate. Un giorno a tutti gli uomini tra i 15 e i 45 anni fu chiesto di radunarsi in un punto del ghetto. Janos decise di seguire Bela nonostante avesse solo 11 anni. Gli uomini furno mandati in un campo di lavoro presso il confine slovacco, indossarono abiti civili con berretti militari ungheresi. I lavoratori ebrei indossarono fasce gialle sul braccio, mentre quelli che si convertirono al cristianesimo indossarono fasce bianche. Janos e Bela furono assegnati al lavoro nel settore medico. Il ragazzo lavorava come messaggero e riusciva ad avere anche un po’ di cibo in più, ma molti adulti non furono così “fortunati”.
Nel frattempo Livia e Istvan furono deportati ad Auschwitz (ma questo Janos non lo sapeva ancora). Al loro arrivo, altri prigionieri consigliarono a Livia di affidare istvan a sua nonna e di presentarsi alla selezione da sola. Alle SS lei disse di essere di quattro anni più giovane e fu inviata ai lavori forzati. Lavorò in una fattoria, poi nel campo di lavoro di Allendorf e poi fu costretta a unirsi alla famigerata “marcia della morte”, ma fu liberata. Istvan invece, che aveva solo 4 anni, fu ucciso insieme a sua nonna.
Nel settembre 1944 gli ungheresi ordinarono a tutti i prigionieri di lasciare Jolsva e furono fatti salire su un treno. Quando il convoglio superò Budapest, Bela disse a Janos di saltare dal treno e scappare. Janos così fece e si tolse il cappello e la fascia al braccio, ma anche in abiti civli fu comunque riconosciuto da una guardia che lo riportò a Budapest per salire nuovamente sul treno. Al loro arrivo però, la guardia cercò il treno e lasciò Janos da solo, lasciandogli una possibilità di fuggire. Bela invece proseguì il viaggio sul treno e riuscì a sopravvivere alla guerra, ma molti che erano con lui nel settore medico di Jolsva furono uccisi il mese successivo a Pusztavam dai nazisti,
Dopo la sua fuga, Janos riuscì a raggiungere l’appartamento di suo zio Laci, fratello di sua madre e della moglie di quest’ultimo, Ilona. La donna, come all’inizio di questa storia, aveva paura di ospitare un bambino ebreo e così Janos fu affidato alla sorella maggiore di sua mamma e a suo marito, Gigi e Geza Weisz, che vivevano in un appartamento affidato specificamente agli ebrei. Qualche tempo dopo, Janos riuscì a riunirsi a suo padre Geza e ne fu ovviamente felice, ma la serenità per loro sarebbe durata molto poco.
A ottobre 1944 infatti, a causa di un rovesciamento nelle alte sfere della politica ungherese, al comando del paese si instaurò Ferenc Szalasi, un nazista ungherese e per gli ebrei ricominciò un periodo di terrore. Un plotone di nazisti ungheresi fece irruzione nel condominio in cui vivevano i Weisz e arrestò Geza, che aveva sessant’anni ed era un veterano dell’esercito ungherese durante la Prima Guerra Mondiale. Geza fu trattenuto per qualche giorno e poi mandato nuovamente a casa. Qualche giorno dopo i nazisti prelevarono la zia Gigi, e la liberarono dopo qualche giorno. Qualche settimana dopo ai due zii fu concesso uno speciale permesso da parte del consolato svizzero che consentiva loro di trasferirsi in una casa sicura.
Janos e suo padre invece si trasferirono in una ex scuola media che in quel momento ospitava un numeroso gruppo di ebrei protetti da membri dell’esercito tedesco, che facevano la guardia all’esterno. Un giorno una dozzina di nazisti ungheresi entrarono nella scuola e ordinarono a tutti gli ebrei di radunarsi in cortile. Janos, non riuscendo a trovare suo padre, si convinse che era arrivata la fine. I militari però, se ne andarono e Janos suo padre riuscirono a ritrovarsi nel cortile affollato.
Furono liberati dai russi a gennaio del 1945. Dopo la guerra Janos si riunì con sua madre e la raggiunse nel campo di dispersi che era stato organizzato in Germania. Poco dopo Livia si sposò con Oskar Russ, un polacco che era sopravvissuto al campo di concentramento a Dachau. La nuova famiglia così riunita, Livia, Oskar e Janos, si trasferì poi negli Stati Uniti nel 1947, mentre Geza Kovacs rimase in Ungheria e lavorò nel settore alimentare fino alla sua scomparsa.
Tornando alla foto di Istvan, che oggi una delle più rappresentative delle vittime dell’Olocausto, è stata donata all’United States Holocaust Memorial Museum dal suo fratellastro Janos ed è stata restaurata. Originariamente in bianco e nero, torna ad essere drammaticamente viva e tangibile grazie al colore.
la nuova resa visiva non fa altro che rendere ancora più sconvolgenti le atrocità commesse dai nazisti all’interno dei campi. Un progetto, questo, portato a termine dal restauratore Tom Marshall, della Photografix di Nottingham.
“Da sei anni coloro vecchie foto in bianco e nero per professione, e questo è il progetto più straziante a cui abbia mai lavorato. Di solito amo vedere i soggetti prendere vita mentre do colore alle immagini, ma questo progetto mi ha sconvolto perché le immagini sono davvero scioccanti. Nonostante lo strazio, però, ho sentito che era una cosa importante da fare, per ricordare alle persone, specialmente alle giovani generazioni, quello che è accaduto e che non è poi così lontano nella storia”.