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Home » Cultura » Storia » Un’onda di 250 metri, un paese cancellato e un silenzio che ancora oggi fa rumore: il disastro del Vajont compie 62 anni

Un’onda di 250 metri, un paese cancellato e un silenzio che ancora oggi fa rumore: il disastro del Vajont compie 62 anni

Il 9 ottobre 1963, 270 milioni di metri cubi di roccia crollarono nel bacino del Vajont, causando 1.917 vittime.
Gabriella DabbeneDi Gabriella Dabbene9 Ottobre 2025
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La diga del Vajont, completata nel 1959
La diga del Vajont, completata nel 1959 (fonte: Mondadori Education)
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La sera del 9 ottobre 1963, alle ore 22:39, si consumò uno dei più tragici disastri della storia italiana. Nel bacino artificiale del torrente Vajont, al confine tra le province di Belluno e Pordenone, circa 263-270 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dal versante settentrionale del Monte Toc, precipitando nell’invaso alla velocità di 110 chilometri orari. Un volume più che doppio rispetto all’acqua contenuta nel lago artificiale, che in quel momento ammontava a circa 115 milioni di metri cubi.

L’impatto generò un’onda tricuspide il cui flusso più imponente superò di 250 metri il coronamento della diga del Vajont, riversandosi prima sui borghi affacciati sul lago nei comuni di Erto e Casso, poi scavalcando il manufatto e precipitando nella valle del Piave. Circa 25-30 milioni di metri cubi d’acqua investirono il fondovalle, distruggendo completamente il paese di Longarone e i comuni limitrofi. Il bilancio fu devastante: 1.917 vittime accertate, di cui 487 erano bambini e adolescenti, tanto che la tragedia venne ribattezzata “la strage dei bambini”.

In realtà il numero reale dei morti rimane imprecisato. Molti sopravvissuti hanno sempre sostenuto che le vittime furono oltre 2.000, poiché numerose salme non vennero mai ritrovate. Ben 817 corpi non furono mai identificati, letteralmente polverizzati dalla forza dell’onda. Una delle caratteristiche più drammatiche del disastro fu il numero ridottissimo di feriti: chi venne travolto dall’acqua morì, la percentuale di sopravvissuti fu infinitesimale. Per questo gli obitori erano stracolmi mentre gli ospedali ospitarono pochissimi pazienti.

Lungo le sponde del lago del Vajont vennero cancellati i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino e la parte bassa dell’abitato di Erto. Nella valle del Piave furono rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Faè, Villanova e Rivalta, mentre risultarono gravemente danneggiati Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna. L’onda, ancora potente, causò danni anche nei comuni di Soverzene, Ponte nelle Alpi, nella città di Belluno a Borgo Piave e nel comune di Vas, nella borgata di Caorera, dove il Piave ingrossato allagò il paese raggiungendo il presbiterio della chiesa.

Quella sera di ottobre era un normale mercoledì. Nei piccoli paesi ai piedi della diga la gente era in casa, nei bar le televisioni erano sintonizzate sulla partita di Coppa dei Campioni Real Madrid-Rangers Glasgow. A una certa ora i carabinieri avevano chiuso la strada per Erto. Nessuno immaginava cosa stesse per accadere. Come scrisse la giornalista Tina Merlin, testimone e cronista della vicenda: “La storia del grande Vajont, durata vent’anni, si conclude in 3 minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime”.

Uno degli aspetti più paradossali e meno conosciuti della tragedia del Vajont è che la diga resistette praticamente intatta. Con i suoi 264 metri di altezza, nel 1963 era la diga più alta del mondo, oggi la quinta. Nonostante abbia subito forze 20 volte superiori a quelle per cui era stata progettata, il manufatto in cemento armato rimase in piedi, seppur privato della strada carrozzabile posta nella parte sommitale. A crollare non fu la diga, ma la montagna, come molti geologi avevano temuto fin dall’inizio del progetto.

Le cause della tragedia vanno ricercate negli anni precedenti al disastro. L’idea di costruire un’enorme diga sul torrente Vajont era apparsa per la prima volta negli anni Venti. Il contratto per la costruzione venne affidato alla SADE, Società Adriatica di Elettricità, che riuscì ad accaparrarsi il terreno nonostante gli avvertimenti negativi di ingegneri e popolazione locale. Durante la fase di costruzione venne assunto un team di esperti, tra cui l’ingegnere tedesco Leopold Müller e due geologi italiani, Eduardo Semenza e Franco Giudici, che studiarono attentamente la valle.

La gola del Vajont vista da Longarone, prima della costruzione della diga
La gola del Vajont vista da Longarone, prima della costruzione della diga (fonte: Wikipedia)

Le loro conclusioni furono allarmanti: le pendenze sopra il serbatoio erano instabili e il rischio di frana era concreto. Scoprirono che sul versante settentrionale del Monte Toc era presente un’antica frana, con rocce non compattate caratterizzate da strati di calcare e argilla con differenti proprietà fisiche. I versanti avevano caratteristiche morfologiche, incoerenza e fragilità, che li rendevano inadatti a essere lambiti da un serbatoio artificiale. Questi avvertimenti, tuttavia, caddero nel dimenticatoio, anche perché la costruzione della diga era ormai quasi completata.

I primi segnali inequivocabili di pericolo si manifestarono nel febbraio del 1960, quando iniziò il primo riempimento dell’invaso prima che la diga fosse completata. Da quel momento si registrarono evidenti segni di instabilità sulle rive sopra il lago artificiale. Il costone meridionale scivolò di circa 3,5 centimetri al giorno e si creò una crepa lunga 2 chilometri. La prima frana indebolì ulteriormente la stabilità del costone di roccia, rendendo evidente la possibilità di una frana di dimensioni maggiori.

Vennero eseguiti test geologici più dettagliati con l’installazione di piezometri in pozzi profondi, che dimostrarono come la superficie di scorrimento fosse molto profonda. Fu allestito anche un laboratorio sismografico per il monitoraggio vicino alla diga. Tutti questi studi confermarono che l’area era estremamente instabile e il rischio di un collasso del fianco della montagna era concreto. Nonostante ciò, l’ente gestore e i suoi dirigenti, pur essendo pienamente a conoscenza della pericolosità, coprirono dolosamente i dati a loro disposizione con il beneplacito di vari enti locali e nazionali, dai piccoli Comuni interessati fino al Ministero dei lavori pubblici.

L’ultimo atto di questa sequenza di negligenze fu l’innalzamento delle acque del lago artificiale oltre la quota di sicurezza di 700 metri, operazione voluta dall’ente gestore ufficialmente per il collaudo dell’impianto, ma con il plausibile fine di provocare la caduta della frana nell’invaso in maniera controllata, in modo che non costituisse più pericolo. Una strategia folle basata su modelli di previsione che si rivelarono completamente errati, in quanto sottostimarono la velocità di scivolamento della frana di circa un terzo rispetto a quella effettiva.

Questa decisione, combinata con abbondanti precipitazioni meteorologiche nei giorni precedenti e le profonde negligenze nella gestione del rischio idrogeologico, accelerò il movimento dell’antica frana. La catastrofe che ne derivò fu così devastante da lasciare un cratere da impatto profondo 60 metri e largo 80 metri nella pianura di fango sotto la diga. Il paese di Longarone, quasi direttamente sotto lo sbarramento, fu cancellato in appena 4 minuti.

Nel 2008 l’UNESCO incluse il Vajont tra i cinque più gravi disastri ambientali di natura antropica della storia, definendolo “un classico esempio di quello che succede quando gli ingegneri e i geologi si rivelano incapaci di cogliere la natura del problema che stanno cercando di affrontare”. Una definizione che però non rende pienamente giustizia alla realtà: non si trattò tanto di incapacità tecnica, quanto di una deliberata occultazione di informazioni e della sottovalutazione consapevole dei rischi da parte dei responsabili del progetto.

Le conseguenze giudiziarie seguirono anni di dibattiti e processi. Le responsabilità vennero ricondotte ai progettisti e dirigenti della SADE, ente gestore dell’opera fino alla nazionalizzazione, che aveva occultato la non idoneità dei versanti del bacino. Vennero coinvolti nelle responsabilità anche la Montecatini, l’ENEL e il Ministero dei lavori pubblici. I danni economici furono stimati in 900 miliardi di lire dell’epoca, una cifra astronomica che tuttavia non può quantificare la portata umana della tragedia.

La valle del Vajont il 9 ottobre 1963
La valle del Vajont il 9 ottobre 1963 (fonte: Wikipedia)

Nelle ore successive al disastro, l’Italia intera si mobilitò per i soccorsi. Vicenza fu in prima linea con i vigili del fuoco, il reparto mobile della polizia, gli alpini di Bassano, enti e privati cittadini. Particolare fu il contributo dei militari della forza tattica dell’esercito statunitense per il Sud Europa, gli unici all’epoca ad avere in dotazione elicotteri pesanti in grado di trasportare persone, materiali e generi di prima necessità. Furono 4.350 gli uomini e le donne portati in salvo dagli aeromobili americani nelle valli del Piave e del Vajont, insieme a 180 tonnellate di viveri, vestiario e medicinali.

A quella tragica notte seguirono anni drammatici per i sopravvissuti, molti dei quali vissero un esilio forzato. Nel 1971 nacque Vajont, il più piccolo comune per dimensioni in Italia, vasto un solo chilometro quadrato. Fu Maniago a cedere quell’area appositamente per ospitare gli sfollati. Sorge a una quarantina di chilometri dal lago omonimo inghiottito dalla frana. Chi non volle spingersi in pianura cercò di ripartire tra mille difficoltà a Erto, situato a 800 metri sul livello del mare, che dopo la frana era diventato un luogo quasi inaccessibile.

Oggi la diga del Vajont è ancora lì, possente e inutilizzata. Non ha prodotto un solo kilowatt di energia elettrica dopo quella notte e non è più stata riempita d’acqua. Nel suo bacino non c’è più un lago, ma un pezzo di montagna. La diga è stata parzialmente aperta al pubblico nel 2002 con visite guidate gestite dall’Ente Parco delle Dolomiti Friulane, con accesso alla passerella lungo la cima. Sono visitabili anche i Centri Visite di Erto e Casso, dove la memoria di quella notte continua a vivere attraverso testimonianze, documenti e reperti.

Il disastro del Vajont rimane una tragedia evitabile, una ferita aperta nella memoria collettiva italiana. Una storia di ambizione tecnica, negligenza criminale e sottovalutazione consapevole dei rischi che costò la vita a quasi duemila persone.

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