Quando nel 1964 la Rai manda in onda Specchio segreto, molti italiani rimangono spiazzati. Delle telecamere nascoste mostrano persone comuni colte di sorpresa, davanti a situazioni assurde: un uomo che intinge il cornetto nel cappuccino di uno sconosciuto al bar, o un attore che cerca di vendere oggetti improbabili ai passanti. In questo modo, per la prima volta, l’Italia si guarda allo specchio, e a rimandare questo riflesso è un regista sardo, ironico e curioso: Nanni Loy.
Nato a Cagliari nel 1925, Giovanni Loy-Donà cresce con una passione per il cinema che lo porta al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Qui impara i mestieri del set, muovendo i primi passi come aiuto regista, fino all’esordio alla fine degli anni ’50 con film in coppia con Gianni Puccini. Ma presto la sua voce si fa autonoma, capace di alternare commedia e impegno civile con uno sguardo sempre diretto e sincero.
Il suo nome esplode con Le quattro giornate di Napoli (1962), film corale che racconta la rivolta della città contro l’occupazione nazista. Un’opera intensa, che ottiene premi, consensi e persino una candidatura all’Oscar. Nanni Loy in questo modo mostra già la sua cifra, ossia dare voce alla gente, alla vita vera, ai protagonisti collettivi che la storia ufficiale tende a dimenticare.
Negli anni Settanta la sua attenzione si sposta sulle contraddizioni del presente. Con Detenuto in attesa di giudizio(1971) denuncia le falle del sistema giudiziario italiano, attraverso il dramma di un uomo qualunque inghiottito dalla burocrazia e dall’ingiustizia dando vita ad un cinema duro, che parla al cuore e alla coscienza.
Ma è in televisione che Loy riesce davvero sorprendere. Con Specchio segreto inventa un format inedito, che oggi viene definito “candid camera”, ma che in quel momento è molto di più. Si tratta di un vero e proprio esperimento sociale in prima serata. L’Italia inizia così a ridere delle proprie reazioni, delle timidezze e della capacità di indignarsi o di farsi trascinare in situazioni paradossali. Non mancano, però, le polemiche. Qualcuno, infatti, inizia a parlare di voyeurismo, altri ne esaltano il valore antropologico. Una cosa è certa, in questo modo Loy ha cambiato per sempre il modo di fare tv.
Qualche anno più tardi ci riprova con Viaggio in seconda classe (1977), ambientato nei vagoni di un treno. Qui passeggeri reali interagiscono con attori nascosti. Ed è così che, tra chiacchiere improvvisate e discussioni spontanee, emerge un’Italia autentica, fatta di dialetti, opinioni, speranze e paure. In sostanza la trasmissione diventa un modo nuovo, diretto e quasi sociologico di raccontare il Paese.
Dietro la macchina da presa, dunque, Loy non era solo un regista ma un osservatore curioso, un narratore che riesce a cogliere la vita nella sua forma più semplice e trasformarla in spettacolo. Al tempo stesso, è un uomo di forte coscienza civile, impegnato a difendere gli autori e a mantenere viva la funzione critica del cinema.
Inevitabilmente quando muore, il 21 agosto 1995, a 69 anni, lascia un vuoto enorme.