Con Trilogia del tempo si intendono gli ultimi tre film girati da Sergio Leone, ovvero C’era una volta il West (1968), Giù la testa (1971). E il suo capolavoro finale, C’era una volta in America (1984). Si tratta di opere che in qualche modo rappresentavano una nuova fase per l’autore capitolino. Il quale, dopo la Trilogia del dollaro, approdò a una nuova dimensione narrativa. Più intima e ironica.
In C’era una volta il West, scritto con la collaborazione di Bernardo Bertolucci e Dario Argento, Leone si confronta con la grandezza del mito-West. Così, abbandonando gli scenari spagnoli di Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo, Leone gira in America. Anzi, nella Monument Valley di John Ford. Utilizzando il volto di Henry Fonda, l’archetipo del buon americano, in uno dei ruoli più cattivi della carriera, quello dello spietato Frank. C’è un altro cambio di marcia rispetto ai western tradizionali: la presenza di una protagonista femminile memorabile, interpretata da Claudia Cardinale, una donna che, in qualche modo, diventa testimone della nascita di una nuova America.
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In C’era una volta il West, il tempo si manifesta dunque in una dimensione epica e malinconica, rappresentando la fine dell’era del Far West e l’avvento della modernità, simboleggiata dalla ferrovia transcontinentale. La storia, infatti, ruota attorno al conflitto per una fonte d’acqua a Sweetwater, essenziale per il passaggio della ferrovia. Così, mentre l’epoca dei pistoleri, come Armonica (Charles Bronson) e Cheyenne (Jason Robards), tramonta, nasce quella degli affaristi come Morton (Gabriele Ferzetti).
I tempi dilatati della regia, con lunghe sequenze silenziose e montaggi che alternano passato e presente (come il flashback della vendetta di Armonica), sottolineano la riflessione sul tempo come forza inesorabile di cambiamento.
Giù la testa (che avrebbe dovuto intitolarsi Giù la testa, coglione, come il “mantra” di uno dei protagonisti), è forse il western più politico di Leone. Non è un caso che il film parta con un cartello e la scritta di un pensiero di Mao Tse Tung:
“La rivoluzione non è un pranzo di gala, , non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di violenza“.
Le rivoluzioni in questo caso sono due, quella messicana incarnata suo malgrado da Juan Miranda (Rod Steiger) e quella irlandese di Sean Mallory (James Coburn).

Infine, C’era una volta in America, ultimo capitolo di una storia cinematografica leggendaria, elabora il mito americano e le sue radici violente, raccontando la storia di un gruppo di gangsters. In un’opera in cui il tempo, coi suoi cicli, è parte integrante della narrazione.
Perché dunque trilogia del tempo? Non solo perché il tempo in qualche modo è al centro delle storie, ma soprattutto per il modo in cui Leone lo ha distorto, allungandolo e accorciandolo, trasformandolo in un elemento del film.
Tempo come memoria, ad esempio il flashback in cui scopriamo la terribile origine della vendetta di Armonica, protagonista di C’era una volta il West. O come scorrere inesorabile dei secondi verso una fine (la dinamite di Giù la testa). Infine, come luogo di speranza spesso disattesa e deformata (tutto il blocco narrativo di Noodles in C’era una volta in America).