Detenuto in attesa di giudizio, film del 1971 con Alberto Sordi, finisce con Giuseppe che, prosciolto da tutte le accuse, può finalmente tornare in Svezia con la sua famiglia. Giunto alla frontiera di Aosta, l’uomo, profondamente provato nell’animo dalle numerose incarcerazioni, immagina di essere trattenuto al posto di blocco per ulteriori controlli, e di fuggire dalle forze dell’ordine, che, nel tentativo di arrestarlo, lo uccidono. Riscossosi dall’incubo ad occhi aperti, Giuseppe riceve il via libera dalle autorità di confine, e prosegue il viaggio di ritorno a casa.
Giuseppe Di Noi è un apprezzato geometra italiano che da anni vive e lavora in Svezia. Sposato, con due figli piccoli, approfittando di una breve pausa nelle commesse di lavoro, decide di tornare in Italia con la famiglia per una vacanza. Alla frontiera, però, viene prelevato dalle autorità e condotto, senza spiegazioni, in carcere. Attonito e disorientato, Giuseppe vorrebbe conoscere il motivo della sua detenzione, ma nessuno sembra in grado di aiutarlo. Dopo una settimana di permanenza a S. Vittore, Giuseppe viene trasferito, insieme ad altri prigionieri, nel carcere romano di Regina Coeli, dove finalmente riceve notizia del capo d’accusa a suo carico; omicidio colposo preterintenzionale ai danni di un cittadino tedesco.
Passano pochi giorni, e Giuseppe viene di nuovo trasferito, per l’udienza con il magistrato, nel carcere di Sagunto, presso Salerno. Nel frattempo, Ingrid, la moglie, combatte contro la burocrazia per rintracciare il marito e, dopo innumerevoli tentativi, recatasi al consolato svedese, viene a sapere dell’incarcerazione. Giuseppe, intanto, ambientatosi nel nuovo penitenziario, va ad udienza con il giudice istruttore che gli comunica l’impossibilità di procedere oltre, se prima l’imputato non nominerà un legale. Smarrito, Di Noi si affida ai consigli di un detenuto con cui è entrato in confidenza sin dalla permanenza a Milano, il partenopeo Guardascione, che gli fornisce il nome del suo avvocato, lo stesso che, dice lui, a breve lo farà uscire di galera. Nel frattempo Ingrid, dopo una visita al casellario giudiziario nazionale, scopre che Giuseppe è stato più volte trasferito, e che ora si trova appunto a Sagunto. Dopo ulteriori lungaggini, la donna riesce finalmente a mettersi in contatto con il penitenziario, ma non le viene permesso di parlare con il marito.
Giuseppe, sempre più a suo agio nella grigia routine della detenzione, viene scosso all’improvviso da un evento inaspettato; Guardascione, dopo essere stato condannato in appello a quattro anni di prigione, si suicida in cella, Durante la messa funebre in suo onore, Giuseppe disattende il regolamento del carcere, che vieta ai detenuti di rispondere alle invocazioni del sacerdote; questo piccolo ma temerario atto di ribellione accende gli animi dei carcerati, stanchi delle misere condizioni in cui si trovano. In men che non si dica, scoppia una furiosa rivolta; Giuseppe, atterrito dalle gravi conseguenze scaturite dal suo gesto innocente, si defila dal grosso delle proteste, rintanandosi in una cella. I rivoltosi, vengono successivamente trasferiti a Rebibbia via nave. Al porto, ad osservare l’imbarcazione che porta via i detenuti, mescolata tra la folla, c’è anche Ingrid. Di Noi, considerato a torto uno dei capi della rivolta, viene disprezzato dalle guardie e ammirato dai suoi nuovi compagni di cella. Dopo aver scoperto che l’idea della rivolta non è stata sua, i carcerati lo aggrediscono brutalmente per violentarlo e quando lui chiama aiuto, lo accusano a loro volta di essere un pervertito. Trascinato via a viva forza dai secondini, l’uomo cade vittima di una grave crisi convulsiva.
Tempo dopo, troviamo Giuseppe, sguardo vuoto e abiti dimessi, ricoverato all’interno di un ospedale psichiatrico giudiziario, ormai rassegnato a una vita completamente diversa dalla precedente. Il direttore dell’istituto, però, lo chiama nel suo ufficio, dove il suo legale e il giudice istruttore gli comunicano la chiusura della pratica; con una semplice firma, sarà libero. Giuseppe, disorientato, sembra non capire ciò che gli viene detto. Con pazienza, allora, il giudice e l’avvocato ricostruiscono per lui tutta la vicenda: anni prima, un viadotto costruito dall’azienda per cui Di Noi lavorava, quand’ancora si trovava in Italia, era crollato, uccidendo un automobilista tedesco. L’imputazione, emessa quando Giuseppe si era già trasferito in Svezia, non aveva quindi potuto raggiungerlo, così come ignoto gli era il crollo del viadotto. Per queste ragioni, il giudice decide di prosciogliere Giuseppe da tutte le accuse.
L’uomo, però, completamente piegato dalle esperienze e dagli elettroshock subiti, firma a fatica il foglio di rilascio, e uscito dalla stanza, incontra il tenero sguardo della moglie, cui risponde con un’espressione disorientata. Finalmente, però, tutto sembra finito, e Giuseppe sta tornando in auto verso la Svezia. Al valico di frontiera di Aosta, il veicolo naturalmente viene fermato per i controlli del caso. Osservando a lungo il cartello “Polizia di frontiera” l’uomo cade in una fantasticheria ad occhi aperti, dove il doganiere gli chiede di seguirlo in ufficio per un breve controllo. Giuseppe, terrorizzato, scappa, inseguito dagli uomini delle forze dell’ordine, che cominciano a sparare nella sua direzione. Accerchiato da una gragnuola di colpi, cerca di ripararsi presso una piccola radura, ma viene ucciso, il petto crivellato di pallottole.
La voce del doganiere, che gli restituisce i documenti, risveglia Giuseppe dal suo incubo. Prima di lasciarlo andare, il doganiere gli chiede se ha passato una bella vacanza; l’uomo, incapace di rispondere, tace, e abbozza una frase poco convinta solo su insistenza della moglie che, con sguardo preoccupato, rimette in moto l’auto verso casa.