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Home » Spettacolo » Di cosa parla Queer il nuovo film “scandalo” di Luca Guadagnino?

Di cosa parla Queer il nuovo film “scandalo” di Luca Guadagnino?

Luca Guadagnino porta Burroughs al cinema con Queer, un viaggio tra desiderio e identità nella Città del Messico anni '50.
Martina SulasDi Martina Sulas18 Aprile 2025
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Una scena di Queer
Una scena di Queer (fonte: Lucky Red)
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Ambientato nella vivace e marginale Città del Messico degli anni Cinquanta, Queer segue le vicende di Lee, un uomo tormentato e solitario che sviluppa una passione ossessiva per il giovane Allerton. Non lo definisce “il film della sua vita”, perché per Luca Guadagnino ogni opera lo è. Eppure Queer, presentato in concorso all’81ª Mostra del Cinema di Venezia e ora nelle sale italiane con Lucky Red, rappresenta un traguardo profondamente personale. Il regista coltivava da oltre trent’anni il desiderio di adattare per il grande schermo il romanzo di William S. Burroughs, scoperto da giovanissimo nella libreria Sellerio di Palermo. Quel libro segnò una tappa importante nella sua formazione artistica, tanto che ne scrisse persino una sceneggiatura, poi abbandonata e mai riletta.

Prodotto da The Apartment, Frenesy Film Company e Fremantle North America, il film è stato sceneggiato da Justin Kuritzkes, già collaboratore di Guadagnino su Challengers (2024). Queer non si limita a trasporre un testo cult: riporta a compimento una storia lasciata incompiuta da Burroughs, con un finale che Guadagnino ha immaginato come “fiammeggiante e dolorosissimo”.

Il libro da cui è tratto, scritto tra il 1951 e il 1953 ma pubblicato solo nel 1985, Checca (noto anche come Diverso o, ad oggi, Queer) è un breve romanzo fortemente autobiografico di William S. Burroughs. L’opera si colloca tra le più intime dello scrittore statunitense, che nei suoi diari e interviste ha spesso descritto la difficoltà di affrontarne la stesura, legata a un trauma profondo: la morte accidentale della moglie Joan, uccisa da un colpo di pistola partito proprio da lui nel 1951.

Ambientata tra Città del Messico e il Sud America, la narrazione segue le vicende di Lee, alter ego dello scrittore, ossessionato da un giovane turista emotivamente distante. La loro relazione è segnata da uno squilibrio affettivo e da dinamiche mercenarie, in un crescendo di tensione che sfocia talvolta nel grottesco. In parallelo, Lee intraprende un viaggio allucinato alla ricerca dello Yage, una pianta amazzonica leggendaria a cui si attribuivano proprietà psicoattive e persino il potere di controllare le menti.

Con Checca, Burroughs esplora desiderio, alienazione e dipendenza emotiva, rivelando con lucidità crudele le crepe della propria esistenza. Un’opera cruda e personale, che getta luce sugli abissi interiori di uno degli autori più controversi del Novecento.

Nel suo adattamento, Guadagnino esplora ancora una volta i temi del desiderio, dell’identità e dell’alienazione, confermandosi tra i registi più audaci e raffinati del panorama contemporaneo.

Il regista ricostruisce un Messico che non vuole essere realistico: lo stilizza, lo trasforma, lo reinventa come un’immagine sospesa tra pittura e fotografia. È un mondo artificiale e volutamente “falso”, ma proprio per questo capace di generare momenti di autentica bellezza visiva. Il film, infatti, non nasconde mai i suoi artifici: li abbraccia e li utilizza per costruire un’esperienza estetica che spesso supera la trama stessa.

La narrazione, ridotta all’essenziale, diventa quasi un pretesto per esplorare la potenza del linguaggio cinematografico. Guadagnino sembra interessato più al gesto del fare cinema che alla linearità del racconto, con uno stile che richiama a tratti l’iperrealismo pittorico o l’atmosfera sospesa degli edifici di Edward Hopper.
Protagonista assoluto è Daniel Craig, che sorprende in un ruolo distante dai suoi personaggi più noti. Il suo William Lee è un uomo spezzato, fragile, che nasconde dietro una corazza di ironia e disincanto un desiderio profondo di contatto umano. Craig lo interpreta con precisione chirurgica, riuscendo a bilanciare sensualità, vulnerabilità e un romanticismo inatteso.

Secondo il regista, il cuore del film non è il sesso – tema che considera sopravvalutato, specialmente al cinema – bensì l’angoscia del relazionarsi con l’altro. Queer esplora il terrore del contatto, la fragilità del desiderio, e lo fa attraverso i corpi: corpi che si muovono, si osservano, esistono nella propria complessità e nella loro dimensione inconscia. Per Guadagnino, il cinema non racconta il sesso, ma la presenza fisica, emozionale e psicologica degli individui.

L’opera è anche una riflessione sul linguaggio e sull’identità. Il titolo stesso, Queer, ha assunto negli anni significati diversi: se nell’immaginario odierno è parte di un acronimo identitario, per Burroughs rappresentava una posizione radicale di marginalità, un rifiuto del centro e dei suoi ruoli di potere. Guadagnino sottolinea come la parola, per sua natura, non possa conciliarsi con il conformismo: “Se siamo tutti queer, allora nessuno lo è più davvero”.

Il film segna anche l’inizio di nuove collaborazioni importanti: con Daniel Craig, Drew Starkey e lo scenografo esordiente Stefano Baisi. Queer, quindi, non è solo un punto d’arrivo, ma anche l’apertura verso nuove strade artistiche.

Con un incasso globale di oltre 5,4 milioni di dollari, Queer ha ricevuto un’accoglienza positiva dalla critica: 77% di gradimento su Rotten Tomatoes e un punteggio di 72 su 100 su Metacritic.

Alla base del film c’è un’idea universale: l’essere umano è, in ultima analisi, solo. Una solitudine non malinconica ma ontologica, che l’arte – e lo sguardo del regista – può rendere sopportabile, forse perfino bella. Queer non è un film tradizionale: è un esercizio di stile che diventa emozione, una riflessione sul desiderio, sull’alienazione e sulla potenza del cinema come arte visiva.

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