Ali Khamenei è il leader supremo della Repubblica Islamica dell’Iran dal 1989, figura centrale del potere teocratico del Paese e uno degli attori più influenti della politica mediorientale. Nato il 17 luglio 1939 a Mashhad, città santa sciita nel nord-est dell’Iran, è cresciuto in una famiglia religiosa e ha seguito una formazione teologica nelle hawze, le scuole coraniche, a Mashhad e Qom, città divenuta poi fulcro della rivoluzione islamica.
La sua ascesa inizia negli anni Settanta, quando aderisce al movimento di opposizione guidato dall’ayatollah Ruhollah Khomeini contro lo scià Mohammad Reza Pahlavi. Un impegno per il quale viene arrestato diverse volte dal regime monarchico. Dopo la rivoluzione del 1979, che rovescia lo scià e portò alla nascita della Repubblica Islamica, Khamenei entra rapidamente nei ranghi più alti del nuovo potere, divenendo presidente dell’Iran dal 1981 al 1989, il primo non religioso a ricoprire questa carica.

Alla morte di Khomeini nel 1989, poi, viene nominato Guida Suprema, ossia Rahbar, dal Consiglio degli Esperti, l’organo incaricato di scegliere la più alta autorità del Paese. In realtà si tratta di una scelta controversa. Khamenei, infatti, non aveva i requisiti religiosi per essere considerato un marja’, una delle più alte autorità teologiche sciite. Per legittimare la sua nomina, dunque, la Costituzione iraniana viene emendata, permettendo ad una figura non riconosciuta di ricoprire quel ruolo.
Da allora, Khamenei ha esercitato un potere vastissimo: è il comandante in capo delle forze armate, controlla direttamente i corpi d’élite dei Pasdaran e le forze al-Quds, supervisiona la magistratura e le politiche estere e di sicurezza. Il suo ruolo supera quello del presidente della Repubblica, eletto ogni quattro anni, perché ha l’ultima parola su ogni questione strategica.
Sotto la sua guida, l’Iran ha consolidato il proprio asse con i gruppi sciiti armati nella regione, come Hezbollah in Libano, gli Houthi nello Yemen e le milizie in Iraq e Siria. Inoltre è considerato anche il principale artefice del cosiddetto Asse della Resistenza contro Israele e l’influenza occidentale in Medio Oriente.
Per quanto riguarda i rapporti internazionali, invece, Khamenei ha mantenuto una posizione fortemente anti-americana e critica verso l’Occidente, pur autorizzando l’accordo sul nucleare (JCPOA) firmato nel 2015 durante la presidenza Rouhani. Lo stesso che è stato abbandonato dagli Stati Uniti nel 2018 sotto Donald Trump. Il ritorno alle trattative con l’amministrazione Biden, però, è stato ostacolato proprio da Khamenei, ritenendo gli Stati Uniti un interlocutore inaffidabile.
Figura austera e riservata, poco incline alle apparizioni pubbliche, dunque, quest’uomo è stato in grado di costruire attorno a sé una rete di fedelissimi che occupano posizioni chiave nei centri di potere politico, militare ed economico del Paese. Il suo potere, in effetti, è fondato essenzialmente sulla lealtà dei Pasdaran e sul controllo capillare dei media, dell’istruzione e della cultura, con un sistema repressivo che ha colpito duramente il dissenso, soprattutto negli ultimi anni di proteste popolari.
In queste ore difficili, dopo il lancio dell’operazione Rising Lion da parte di Israele, il destino di Khamenei sembra appeso a un filo. Secondo quanto riportato dalla televisione Iran International, basata a Londra, il vice capo di gabinetto della Guida suprema è in trattative con le autorità di Mosca per ottenere un salvacondotto in Russia “se la situazione si deteriorasse“. Sempre secondo l’emittente Khamenei è stato evacuato con i familiari in un rifugio sotterraneo nell’area di Lavizan, nel nord-est di Teheran.
I bombardamenti di Israele continuano, così come la risposta iraniana, ben più esigua. L’eventuale morte di Khamenei, come ribadito dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, porrebbe fine al conflitto.