Nel remoto nord del Québec, sulle rive orientali della Baia di Hudson, si trova un affioramento roccioso dall’aspetto tranquillo, ma dal valore scientifico enorme: il Nuvvuagittuq Greenstone Belt. Questo frammento di antica crosta terrestre è oggi considerato una delle testimonianze geologiche più antiche mai scoperte, con un’età stimata di 4,16 miliardi di anni. Significa che si tratta di rocce formatesi durante l’Eone Hadeano, la primissima era della Terra, quando il nostro pianeta era ancora giovane, rovente e instabile. Scoprirle e datarle con precisione è stata una sfida durata decenni, ma oggi possiamo considerarle una pagina preziosa del libro che racconta le origini della Terra.
Il Nuvvuagittuq Greenstone Belt è stato scoperto negli anni Sessanta durante una campagna di rilevamento geologico, ma ha attirato davvero l’interesse degli scienziati solo nei primi anni 2000. Da allora, è diventato teatro di un acceso dibattito tra i geologi di tutto il mondo. La domanda era: si tratta davvero delle rocce più antiche della Terra? La risposta non è semplice, perché datarle con precisione è complicato. La Terra è un pianeta dinamico, e le sue rocce vengono continuamente trasformate da forze interne (come il calore e la pressione) ed esterne (come l’erosione). Solo raramente frammenti della crosta originaria riescono a sopravvivere fino a noi.

Per determinare l’età di queste rocce, i geologi usano tecniche di datazione radiometrica: studiano la quantità di certi elementi radioattivi presenti nei minerali e osservano come si trasformano nel tempo. Il metodo più preciso si basa su un minerale chiamato zircone, che contiene uranio e respinge il piombo. Dato che l’uranio si trasforma in piombo a una velocità conosciuta, si può calcolare con precisione l’età della roccia. Tuttavia, il Nuvvuagittuq Greenstone Belt è composto da rocce che non contengono zirconi, perché derivano da un’antica crosta oceanica povera di silicio. Questo ha complicato enormemente le analisi.
Per superare il problema, il geologo canadese Jonathan O’Neil e il suo team hanno usato un altro metodo: hanno misurato il decadimento del samario in neodimio, due elementi rari. Il dato sorprendente è che due tecniche indipendenti — una basata su samario-neodimio e l’altra su uranio-piombo — hanno fornito lo stesso risultato: 4,16 miliardi di anni. Un valore coerente, ottenuto su campioni diversi, raccolti in punti differenti del sito.
Questo risultato è stato accolto con grande interesse nella comunità scientifica. Alcuni esperti che in passato erano scettici si sono detti ora “più convinti”. È il caso del geochimico francese Bernard Bourdon, che ha definito il nuovo studio “migliore” rispetto a quello pubblicato nel 2008, anche se ha ammesso di voler analizzare i dati più a fondo. Altri scienziati, come Jesse Reimink della Penn State University, hanno sottolineato quanto sia straordinario che frammenti così antichi si siano conservati fino ad oggi, anche se resta difficile capire con certezza tutto ciò che è successo a quei minerali in 4 miliardi di anni.