Il finale di Buongiorno, notte, film diretto da Marco Bellocchio nel 2003 e ispirato al libro Il prigioniero di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, è stato oggetto di ampie discussioni per la sua forza simbolica e per la sua distanza dalla realtà storica. Dopo aver seguito per tutta la durata del film il tormento interiore del personaggio di Chiara, divisa tra l’ideologia rivoluzionaria e una crescente umanità nei confronti del prigioniero, Bellocchio sceglie di concludere con una sequenza potentemente onirica e metaforica, che si distacca dai fatti reali per immaginare un esito diverso.
Nella scena finale, infatti, la ragazza prende una decisione inaspettata: libera Aldo Moro dalla prigione in cui è rinchiuso, lo accompagna all’esterno e lo osserva allontanarsi sotto la luce del Sole. L’uomo, visibilmente provato ma vivo, cammina tra la gente comune, tra volti anonimi e luoghi ordinari. Questo momento sospeso, quasi irreale, rappresenta una fuga dalla tragedia storica, una possibilità alternativa che il film suggerisce senza affermarla.
Ma subito dopo questa sequenza si torna alla realtà: Moro, interpretato da Roberto Herlitzka, non viene liberato, e il suo destino è quello che conosciamo. Bellocchio, dunque, non riscrive la storia, ma ne offre una lettura personale, emotiva, filtrata dal tormento di una protagonista che non riesce più a sostenere il peso della violenza ideologica. Il finale onirico non è solo un sogno di Chiara, ma una riflessione più ampia sul rimorso, sull’utopia fallita e sulla possibilità, anche solo immaginaria, di un finale diverso e più umano.
Dal punto di vista cinematografico, però, questa scelta registica ha diviso pubblico e critica. Alcuni l’hanno letta come una fuga dalla responsabilità della narrazione storica, altri l’hanno interpretata come una potente affermazione della libertà artistica di Bellocchio, che sceglie il linguaggio del cinema per esplorare le pieghe della coscienza, anziché limitarsi alla cronaca.
Con questo epilogo, dunque, Buongiorno, notte si conferma un film politico nel senso più profondo, non tanto per il tema trattato, quanto per il modo in cui interroga lo spettatore, mettendolo di fronte all’impossibilità di conciliare ideologia e pietà, giustizia e violenza. Il finale non dà risposte, ma rilancia domande che restano ancora oggi estremamente attuali.