In un’epoca in cui la celebrità si misura a colpi di esposizione mediatica e dichiarazioni sui social, l’amicizia tra Stanley Kubrick ed Emilio D’Alessandro appare come un’anomalia. Discreta, profonda, basata su fiducia e dedizione assoluta, è una delle storie più sorprendenti – e commoventi – della storia del cinema. Un regista iconico, visionario e paranoico; un ex pilota di auto da corsa di Cassino, emigrato in Inghilterra in cerca di un futuro. Due uomini agli antipodi, eppure inseparabili.
Raccontata con semplicità e umanità nel libro “Stanley Kubrick e me” (2012, Il Saggiatore), scritto da D’Alessandro con il giornalista Filippo Ulivieri, questa storia vera ci regala uno sguardo senza precedenti sull’uomo dietro il mito, e su cosa significhi davvero “essere al servizio” di un genio creativo.
Era il 1971 quando Emilio D’Alessandro, emigrato a Londra per inseguire la carriera nel motorsport, accettò un incarico come autista per una compagnia privata. Uno dei clienti – estremamente esigente e pignolo – aveva chiesto la consegna urgente e precisa di alcuni oggetti durante il montaggio del film Arancia Meccanica. Quell’uomo era Stanley Kubrick.
Kubrick, colpito dalla cura maniacale con cui Emilio portava a termine i compiti, decise di assumerlo a tempo pieno. All’inizio, Emilio non conosceva neppure chi fosse Kubrick – non era interessato al cinema. Ma quella ignoranza divenne un vantaggio: non lo trattava come una leggenda, ma come un uomo, e questo Kubrick lo apprezzava profondamente. Così, l’autista divenne ben presto assistente personale, factotum, amico, confidente e persino un membro non ufficiale della famiglia Kubrick.

Il legame tra i due si costruì giorno dopo giorno, tra commissioni apparentemente banali e incombenze logistiche di enorme responsabilità. Quando Kubrick era immerso nei suoi film – Shining, Full Metal Jacket, Eyes Wide Shut – Emilio si occupava del resto: trasportava materiali segreti, sorvegliava le location, accompagnava gli attori, ma soprattutto proteggeva la quiete necessaria al regista per lavorare. Era il suo filtro con il mondo.
Kubrick, uomo schivo e timoroso dell’imprevedibilità umana, trovò in Emilio una figura su cui poter contare completamente. Non solo un assistente, ma una sorta di protesi della sua volontà: discreta, silenziosa, affidabile. Per questo motivo, D’Alessandro godeva di un accesso assolutamente unico nella casa di Childwickbury Manor, dove il regista viveva e lavorava (messa in vendita da poco).
Ciò che emerge dalle pagine del libro e dalle parole di Emilio è un ritratto inedito di Stanley Kubrick. Dietro la figura mitizzata del regista perfezionista e distante, si cela un uomo pieno di ansie, nevrosi, affetto per gli animali, timori per la salute dei suoi cari. Un uomo che, nella solitudine della sua mente geniale, aveva bisogno disperato di qualcuno che gli volesse bene senza secondi fini.
In uno degli aneddoti più teneri, Kubrick si preoccupava che Emilio mangiasse abbastanza, gli faceva trovare la cena pronta, si accertava che si prendesse delle ferie. Un’altra volta, temendo che Emilio potesse andarsene per sempre in Italia, gli scrisse lettere commosse, chiedendogli di tornare. E così, tra consegne notturne di manoscritti, cassette misteriose da far arrivare negli USA, e colazioni consumate nel silenzio del mattino, si costruì un’amicizia vera, rara, senza condizioni. Diceva D’Alessandro:
“Mi chiamava ogni mattina. Anche solo per sapere se stavo bene. Non era un padrone, era parte della mia vita. Era la mia famiglia”.
Nel corso di tre decenni, Emilio fu testimone diretto della realizzazione dei capolavori di Kubrick. Durante Shining, fu lui a ospitare Jack Nicholson e Shelley Duvall, a gestire la logistica dell’hotel costruito negli studi. Con Full Metal Jacket, seguì da vicino la trasformazione delle periferie inglesi in Vietnam. E con Eyes Wide Shut, accompagnò Tom Cruise e Nicole Kidman nelle riprese blindatissime dell’ultimo film di Kubrick, completato poco prima della morte nel 1999.
Emilio non partecipava alle scelte artistiche, ma faceva funzionare la macchina invisibile che stava dietro il regista. Era, come dice lui stesso, “le sue gambe, le sue braccia, i suoi occhi”. In un ambiente in cui tutto doveva essere sotto controllo, lui era l’unico a cui Kubrick affidava il comando senza temere.
Dopo la morte di Kubrick, D’Alessandro si chiuse in un lungo silenzio. Solo anni dopo, spinto dalla famiglia e dal biografo Filippo Ulivieri, decise di raccontare la sua esperienza. Ne nacque Stanley Kubrick e me, libro che ha commosso lettori di tutto il mondo.
Nel 2015, il regista Alex Infascelli ha tratto da questa storia il documentario S is for Stanley, premiato con il David di Donatello. Un ritratto intimo, narrato in prima persona, in cui D’Alessandro rivela come la semplicità di un uomo comune possa entrare nella vita di un artista straordinario e rimanere lì, per sempre.
La storia tra Stanley Kubrick ed Emilio D’Alessandro non è solo una curiosità da dietro le quinte, ma una riflessione potente sul valore dell’umanità nel mondo dell’arte. In un settore in cui l’ambizione spesso sovrasta l’empatia, Kubrick – il regista che dominava ogni dettaglio – si affidava ciecamente a un uomo semplice, genuino, che non lo giudicava, non lo adulava, ma lo rispettava. Forse, come scrisse Ulivieri, “nessun altro ha conosciuto Kubrick così bene, né così a lungo”.
Un’amicizia nata nel silenzio e rimasta tale per trent’anni. Un legame che ci ricorda che anche i più grandi hanno bisogno di qualcuno che li guardi non dall’alto in basso, né dal basso in alto, ma esattamente negli occhi.