Nel 1968, la Primavera di Praga ha incarnato un momento luminoso di speranza politica e sociale in Cecoslovacchia. A partire dal 5 gennaio, con l’elezione di Alexander Dubček a primo segretario del Partito Comunista, si apre una fase di riforme significative tra cui la liberalizzazione dei media, la libertà di parola e la riduzione della censura. A tutto questo si aggiunge la discussione di una riforma costituzionale e una maggiore autonomia per la Slovacchia.
La popolazione reagisce con entusiasmo a questa ondata rivoluzionaria. Intellettuali, studenti, giornalisti e cittadini partecipano attivamente al dibattito pubblico e alla costruzione di una sfera politica più vivace, inclusiva e meno rigida. Dubček, poi, propone un progetto noto come “socialismo con volto umano”, cercando di conciliare idealmente socialismo e pluralismo politico senza mettere in discussione formalmente il ruolo guida del Partito.

Tuttavia, queste riforme non passano inosservate all’Unione Sovietica e agli alleati del Patto di Varsavia, preoccupati per la diffusione di spinte democratiche in tutta l’Europa dell’Est. In particolare Leonid Brezhnev e la leadership sovietica interpretarono la situazione come una minaccia all’ordine stabilito nell’area di influenza russa.
Negli ultimi mesi del 1968, i tentativi di dialogo oscillano tra pressioni politiche e negoziati. Ad inizio agosto si tiene una conferenza a Bratislava, da cui emerge una dichiarazione congiunta dei partiti comunisti del Patto di Varsavia e la riaffermazione della disciplina ideologica e dell’impegno contro quelle che venivano definite “forze anti-socialiste”.
La svolta drammatica, però, avviene nella notte tra 20 e 21 agosto 1968, quando truppe del Patto di Varsavia, guidate dall’Unione Sovietica, invadono la Cecoslovacchia con carri armati, aerei e un massiccio schieramento militare. Il movimento riformista viene represso in pochi giorni.
Di fronte a questa invasione i cittadini non reagiscono con violenta su larga scala, ma si manifestano atti di resistenza civile tra cui manifestazioni, rimuovere la segnaletica stradale per confondere i militari, tentare di difendere le emittenti radio e televisive nazionali. In particolare, la battaglia per la radio nazionale a Praga diventa simbolica. Civili disarmati si oppongono all’avanzata dei carri armati, perdendo la vita in 17. Un episodio drammatici che è stato trasformato in uno dei simboli della resistenza civica.
Gli stessi leader riformisti, tra cui Dubček, vengono arrestati e portati a Mosca, mentre la negoziazione successiva sfocia nel Protocollo di Mosca, che impose il ritiro di molte delle riforme e il mantenimento delle truppe sovietiche sul territorio.
Nel volgere di pochi mesi, la leadership del paese viene ristrutturata: perdono potere i riformisti, e Gustáv Husák emerge come nuovo leader dominante. Inizia così un periodo definito “normalizzazione”, in cui le riforme sono progressivamente annullate, ripristinata la censura, ristabilito il controllo politico. In questo modo la Cecoslovacchia torna nel solco dell’area sovietica fino ai cambiamenti del 1989.
Si apre, inoltre, la stagione delle proteste civili simboliche. Una delle più note è quella di Jan Palach, studente che nel gennaio 1969, che si da fuoco per protestare contro la perdita delle libertà e la repressione politica.
La Primavera di Praga, dunque, rappresenta un importante esempio di come una società civile, pur sotto regime autoritario, possa manifestare vigorosamente la richiesta di diritti, riforme e libertà, contribuendo con la propria storia a ispirare movimenti futuri, dalla Rivoluzione di Velluto del 1989 fino all’emergere di personalità politiche e culturali che rifletteranno a lungo su quell’esperienza.