In una società che anela alla perfezione, soprattutto quella formale ed estetica, riscoprire L’elogio dell’imperfezione, scritto da Rita Levi-Montalcini nel 1987, rappresenta un passo fondamentale per riscoprire il valore dell’errore. In questa sorta di autobiografia, infatti, il premio Nobel per la Medicina, ricostruisce la sua esperienza umana e scientifica. Partendo proprio dal presupposto che l’imperfezione, incarnata in quello che comunemente si chiama sbaglio, non ha un’accezione negativa ma, bensì, costruttiva.
In questo senso, dunque, L’elogio dell’imperfezione si presenta come un bilancio di tutto l’operato della famosa neuro scienziata. Un percorso che mette in evidenza soprattutto le “cadute”. Il processo scientifico ed intellettuale, infatti, trova la sua massima espressione non certo dai successi quanto dagli insuccessi. In questo caso, infatti, l’errore, se ammesso, studiato e analizzato, diventa una tappa necessaria per arrivare al cuore della questione e, soprattutto, alla scoperta di una soluzione effettivamente valida.
Un concetto che Rita Levi-Montalcini ha applicato in tutti i campi della sua esistenza. Dalla rigida educazione della sua famiglia ebraico – sefardita, passando per gli anni della guerra, le persecuzioni razziali, la fuga negli Stati Uniti e, soprattutto, le scoperte scientifiche. Tutto questo ha composto il profilo di una donna e una scienziata che ha intrattenuto con l’errore un dialogo costante. Lo stesso con cui gli studenti della maturità 2024 si sono confrontati in una delle tracce della prima prova grazie a queste parole tratte dall’opera:
“Considerando in retrospettiva il mio lungo percorso, quello di coetanei e colleghi e delle giovani reclute che si sono affiancate a noi, credo di poter affermare che nella ricerca scientifica, né il grado di intelligenza né la capacità di eseguire e portare a termine con esattezza il compito intrapreso, siano i fattori essenziali per la riuscita e la soddisfazione personale. Nell’una e nell’altra contano maggiormente la totale dedizione e il chiudere gli occhi davanti alle difficoltà: in tal modo possiamo affrontare problemi che altri, più critici e più acuti, non affronterebbero. Senza seguire un piano prestabilito, ma guidata di volta in volta dalle mie inclinazioni e dal caso, ho tentato (…) di conciliare due aspirazioni inconciliabili, secondo il grande poeta Yeats: ‘Perfection of the life, or of the work’. Così facendo, e secondo le sue predizioni, ho realizzato quella che si può definire ‘Imperfection of the life and of the work’. Il fatto che l’attività svolta in modo così imperfetto sia stata e sia tuttora per me fonte inesauribile di gioia, mi fa ritenere che l’imperfezione nell’eseguire il compito che ci siamo prefissi o ci è stato assegnato, sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione”.
Di seguito un’intervista realizzata a Rita Levi-Montalcini da Maurizio Costanzo ad un anno dal Premio Nobel del 1986. Un momento d’incredibile apertura in cui la scienziata ammette di come il riconoscimento sia stato quasi un evento catastrofico per il suo equilibrio, portandola a sentirsi inadeguata rispetto alla situazione e all’onore conseguito. Un’imperfezione importante e necessaria, dunque, che ha contribuito a definire il profilo di una donna eccezionale.