“Perché declamare tanto contro le passioni? Non sono forse l’unica cosa bella che esista sulla faccia della terra, la gran sorgente dell’eroismo, dell’entusiasmo, della poesia, della musica, delle arti, del tutto insomma?”. Parole che vorrebbero trattenere l’universo in un palmo, l’esperienza umana in un verso, alla ricerca dell’indicibile. Chissà quando queste parole del celebre romanzo Madame Bovary cominciarono a bussare nella mente del suo autore Gustave Flaubert, scrittore capostipite del realismo letterario francese alla continua ricerca del suo zenith romantico, “le mot juste” (la parola giusta). Un autore che prima di tutto è stato un bambino non compreso, considerato idiota e incompetente dalla sua stessa famiglia per delle oggettive difficoltà psichiche ed emotive.
Non riuscendo a leggere fino agli otto anni, si chiuse in una solitudine spiccata che lo portò a distaccarsi dai suoi piccoli coetanei, vivendo in un mondo tutto suo. Alcuni esperti contemporanei hanno recentemente scoperto che molto probabilmente Flaubert rientrava nello spettro autistico, esattamente con la sindrome di Asperger. Ma queste gabbie famigliari e sociali divennero per il piccolo Gustave il motore per la rivalsa, sbocciando nel genio letterario, l’eroe degli incompresi.

Di sicuro sappiamo che la figura di Emma Rouault, la protagonista del racconto, nella realtà ha avuto una ispirazione femminile. Difatti, Flaubert, trovò terreno fertile per imbastire un racconto per merito di una storia particolare che gli capitò all’orecchio durante un incontro con un caro amico che gli parlò di un fatto di cronaca che sconvolse l’intera Francia. Delphine (che diventerà nel romanzo Madame Bovary) era una contadina normanna di umile famiglia, avvenente, di spirito gioviale e con straboccante voglia di vivere appassionatamente.
Quando conobbe un giovane medico dell’ospedale di Rouen, decisero di sposarsi e grazie al nuovo ruolo sociale, trovò finalmente le opportunità per assaporare i desideri tanto repressi dal misero contesto contadino. Dopo aver speso cifre folli nella bella vita borghese e tradendo ripetutamente il marito, si uccise alla sola età di ventisei anni, non riuscendo a gestire le insoddisfazioni accumulate e la scottante bancarotta. L’avvenimento scosse profondamente Flaubert, tanto che iniziò a mettere su carta il suo racconto e dopo 4500 fogli venne pubblicato per la prima volta ad episodi sul giornale “La Revue de Paris” nel 1856 e la letteratura mondiale conobbe questo iconico personaggio femminile.

Emma Rouault è raccontata da Flaubert in tono ridicolizzante e giudicante, ponendo uno sguardo influenzato dai dettami patriarcali dell’epoca. Riteneva infatti sconveniente e superficiale il perdersi nella sua estrema vitalità di frivolezze, criticando aspramente gli usi e costumi della classe borghese francese ottocentesca. Ma ad una lettura approfondita balza all’occhio l’incredibile spinta vitale di Madame Bovary, in un moto-a-luogo dell’animo verso le chilometriche spiagge della libertà, in una frenesia di entusiasmi e godimenti.
La vera tragicità di Madame Bovary sarà il mancato incontro con un altro-da-sé con cui condividere le sue spinte vitali e capace di comprenderla in profondità, in una solitudine interiore che solo il cianuro saprà spegnere. Un personaggio che nella sua drammaticità ha personificato la ribellione femminile al conformismo del ruolo remissivo e silente, sfuggendo dalle restrizioni e dalla monotonia della campagna – un luogo che le calzava stretto.
Il profondo sentimento di sfuggire alla mediocrità della vita di provincia suscitato nel racconto, divenne un manifesto per i letterati realisti ottocenteschi che si rispecchiavano nelle parole di Flaubert, tanto da coniare un termine che racchiudeva tale pensiero. Il bovarismo accumunava artisti e creativi che vedevano nella città un luogo di salvezza, di realizzazione dei propri sogni di libertà, di rifugio dalla realtà asfissiante in cui vivevano. Ma, ahimè, spesso non si ritrovavano nelle loro aspettative e abbattuti ritornavano carichi di delusioni. Ma dopotutto è la stessa condizione dell’artista ad essere inquieta e a ricercare continuamente una via di fuga dalla realtà. Una strada che solo attraverso le vie della creatività può ricongiungerlo alla sua dimensione naturale, sempreverde: quella dell’immaginario.