Londra, 1941 – In un’Europa schiacciata dalla macchina propagandistica del Terzo Reich, una lettera solitaria iniziò a comparire ovunque: sui muri, nei volantini clandestini, nei gesti delle mani, perfino nei suoni delle trasmissioni radio. Era la lettera V. Una semplice consonante che, grazie alla BBC e al genio musicale di Beethoven, divenne il simbolo universale della resistenza contro l’oppressione. Tutto cominciò con un’idea semplice ma audace. Victor de Laveleye, politico belga in esilio, durante una trasmissione del Servizio Europeo della BBC nel gennaio del 1941, lanciò un appello ai cittadini dei Paesi Bassi occupati: disegnate la “V” ovunque, come segno di unità e sfida. “V” come Victoire in francese e Vrijheid in olandese — vittoria e libertà. Il messaggio ebbe risonanza immediata.
La BBC, consapevole della potenza del gesto, trasformò l’intuizione in una campagna strutturata: “V for Victory”. Una strategia di comunicazione capillare, dove ogni mezzo disponibile — voce, suono, immagine — veniva messo al servizio di un’unica missione: tenere viva la speranza nei territori occupati.
Nel cuore della campagna c’era un dettaglio sorprendente: la lettera V nel codice Morse corrisponde a tre punti e una linea (● ● ● ▬), lo stesso ritmo che apre la Quinta Sinfonia di Beethoven. Le prime quattro note — sol, sol, sol, mi bemolle — vennero adottate come sigla d’apertura delle trasmissioni radio della BBC rivolte all’Europa.
Era un colpo da maestro. Un compositore tedesco, da sempre celebrato dal regime come simbolo della grandezza culturale del popolo ariano, veniva risemantizzato: la sua musica diventava la colonna sonora della lotta antifascista. Ogni volta che quelle note risuonavano — in radio, fischiettate per strada, battute su una porta — un messaggio silenzioso si diffondeva: “non siete soli”.
A dare ulteriore potenza alla campagna fu Winston Churchill. Nel luglio del 1941, il primo ministro britannico iniziò a comparire pubblicamente con le dita a formare la “V”, immortalato da fotografi e cineoperatori. Quel gesto — due dita alzate, simbolo di vittoria — divenne uno dei più iconici del conflitto. Non era solo comunicazione: era ispirazione.

Il giornalista Douglas Ritchie, sotto lo pseudonimo di “Colonel Britton”, fu la voce ufficiale della campagna alla radio. Ogni suo intervento rafforzava il legame tra il popolo britannico e le resistenze europee. La BBC, in questo contesto, non fu solo un’emittente: fu un’arma silenziosa, che bucava le barriere della censura nazista.
In Francia, Belgio, Paesi Bassi e altrove, la “V” divenne ovunque. Era scritta con il gesso sui muri, tracciata con il carbone nei villaggi, incisa nei campi. Persino nella musica popolare: Maurice van Moppes compose La chanson des V, adattando la sinfonia di Beethoven a un inno di resistenza.
Anche le campane delle chiese venivano usate per riprodurre il ritmo ● ● ● ▬. In ogni città, in ogni strada, una comunità silenziosa comunicava con un linguaggio nuovo, accessibile a tutti ma incomprensibile al regime. Era una guerra parallela, fatta di simboli, suoni e sguardi complici.
Il successo della “V for Victory” fu tale che i nazisti tentarono, senza successo, di riappropriarsene. Cercarono di ridurre il gesto a uno strumento di propaganda del Reich, ma il simbolo aveva già trovato la sua strada. Era diventato parte del DNA della resistenza europea.
La scelta della BBC di usare Beethoven si rivelò ancora più ironica e beffarda per il regime. Quel che doveva essere una gloria tedesca era diventato il segnale della libertà. La propaganda alleata colpiva nel profondo, usando gli strumenti della cultura per combattere la paura.
La potenza della musica non si fermò alla guerra. Quando, nel 1989, cadde il Muro di Berlino, fu ancora Beethoven a risuonare. Leonard Bernstein diresse un’esecuzione storica della Nona Sinfonia nella capitale tedesca riunificata, modificando simbolicamente il testo in “Freiheit” (libertà), al posto di “Freude” (gioia).
Tom Service, nel documentario BBC “V for Victory, Beethoven and the BBC”, lo racconta con passione: quattro note bastarono per unire un continente. Non erano solo musica. Erano un linguaggio comune, un segnale di speranza, un’arma invisibile che attraversava muri e frontiere.
La campagna “V for Victory” non fu solo propaganda. Fu una delle prime, grandi operazioni di comunicazione integrata della storia moderna. Codice Morse, musica, radio, gestualità e immagini: tutto concorse a trasformare una lettera in un simbolo universale di libertà.
In tempi bui, bastò una “V” — una sequenza, un suono, un gesto — per dire al mondo che la resistenza era viva. E che la vittoria, per quanto lontana, era possibile.