Oscar Wilde, celebre scrittore e drammaturgo irlandese, fu protagonista di una delle vicende giudiziarie più clamorose dell’epoca vittoriana. Nel 1895, al culmine della sua carriera, fu coinvolto in una serie di processi che portarono alla sua condanna per “gross indecency” (atti osceni), un’accusa rivolta agli uomini che intrattenevano relazioni omosessuali, allora illegali nel Regno Unito.
Tutto ebbe inizio quando Wilde intentò una causa per diffamazione contro il marchese di Queensberry, padre del suo giovane amante Lord Alfred Douglas. Il marchese aveva accusato Wilde di “posare da sodomita”, un’accusa che, se dimostrata vera, avrebbe reso la diffamazione non perseguibile. Durante il processo, l’avvocato difensore Edward Carson presentò prove delle relazioni di Wilde con giovani uomini, inclusi lettere compromettenti e testimonianze di prostituti maschili. Di fronte a queste evidenze, Wilde ritirò la denuncia, ma fu immediatamente arrestato e accusato di atti osceni.

Il primo processo penale si concluse con un nulla di fatto, ma nel secondo, Wilde ebbe una condanna a due anni di lavori forzati, la pena massima prevista. Il giudice Alfred Wills, nel pronunciare la sentenza, definì il caso “il peggiore che abbia mai giudicato”, sottolineando la severità della condanna. Wilde scontò la pena in diverse prigioni, tra cui il carcere di Reading. Qui lui era solo “C.3.3.”, il numero della sua cella.
Durante la detenzione, Wilde scrisse “De Profundis”, una lunga lettera indirizzata a Lord Alfred Douglas, in cui rifletteva sulla sua vita, le sue scelte e la sofferenza patita. Dopo il rilascio nel 1897, visse in esilio in Francia, in condizioni di povertà e salute precaria, fino alla sua morte nel 1900.
Wilde, intellettuale simbolo di un epoca, tanto da far diventare il suo garofano verde emblema dei movimenti LGBTQIA+, soffrì come altre grandi personalità inglesi. Una su tutte, il matematico Alan Turing.