Le rovine di Pompei sono uno dei tesori artistici e archeologi più preziosi. Oltre al fascino e al mistero che da sempre avvolge gli eventi della città sepolta e cancellata dall’eruzione del vulcano nel 79. d.C., infatti, il loro ritrovamento ha rappresentato un valore assoluto per la ricostruzione storica, raccontando come era organizzata la quotidianità in una città romana. Ma quando, esattamente, le prime prove della sua presenza hanno iniziato a venire alla luce, dando inizio ad una intensa attività archeologica che continua ancora oggi?
Dopo l’eruzione del Vesuvio, Pompei scompare sotto una coltre di cenere e lapilli, restando dimenticata per oltre 1600 anni. Tuttavia, alcune notizie sulla sua esistenza continuano a circolare nei secoli. Nel Medioevo, ad esempio, il luogo dove si trovava la città era noto come “La Cività”, un’area in cui talvolta emergevano resti antichi, ma senza che si comprendesse la loro origine. Nel XVI secolo, poi, durante alcuni lavori per la costruzione di un canale per deviare il fiume Sarno, vengono alla luce iscrizioni e strutture antiche. Anche in questo caso, però, non è intrapresa alcuna ricerca sistematica e la città continua a “dormire” indisturbata e nascosta allo sguardo degli uomini.

Per iniziare una vera e propria attività di scavo nella zona, dunque, si deve attendere il 1738. A sovvenzionare e sostenere i lavori di ricerca è il re di Napoli, Carlo di Borbone, che nutre un interesse per la sorte delle città sepolte dalla forza distruttrice del Vesuvio. Inizialmente, però, gli scavi si concentrano soprattutto su Ercolano, che si trova più in superficie rispetto a Pompei e offre reperti ben conservati grazie alla solidificazione del materiale vulcanico.
Nel 1748, poi, gli scavi si spostano nella zona di Pompei. Inizialmente, i lavori sono condotti senza un metodo scientifico preciso. Ad essere cercati, infatti, sono soprattutto tesori e opere d’arte da trasferire alla corte reale. Tuttavia, la qualità e la quantità dei ritrovamenti fanno ben presto capire l’importanza storica del sito.
Con l’arrivo del XIX secolo, però, l’approccio alla ricerca diventa più metodico. Sotto la guida dell’archeologo Giuseppe Fiorelli, che assume la direzione nel 1860, vengono introdotte tecniche più scientifiche per preservare le strutture e gli oggetti rinvenuti. Fiorelli, infatti, adotta il metodo dei calchi in gesso per ricreare le sagome delle vittime dell’eruzione, riempiendo con gesso liquido i vuoti lasciati dai corpi disintegrati nel materiale vulcanico. Questa tecnica ha permesso di ottenere impressionanti immagini degli ultimi momenti di vita degli abitanti di Pompei e di Ercolano.
Oltre a questo, poi, vengono riportati alla luce edifici iconici come il Foro, il Teatro Grande, il Tempio di Apollo e molte domus splendidamente affrescate, tra cui la famosa Casa dei Vettii. Una attività che è continuata con sempre maggior attenzione alla conservazione nel XX secolo e che, attualmente, è ripresa attivamente portando alla luce nuove interessanti luoghi della città, pronti a donare particolari sempre più precisi e attendibili nella ricostruzione del mondo romano.
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