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Home » Innovazione » Scienza » Tre iniezioni e l’Alzheimer è regredito nei topi: è l’inizio della cura?

Tre iniezioni e l’Alzheimer è regredito nei topi: è l’inizio della cura?

Ricercatori invertono l'Alzheimer nei topi con 3 iniezioni riparando la barriera emato-encefalica tramite nanoparticelle. Una scoperta rivoluzionaria.
Francesca FiorentinoDi Francesca Fiorentino8 Ottobre 2025
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cavia da laboratorio
cavia da laboratorio (fonte: Pexels)
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Un gruppo di ricercatori ha annunciato ieri di aver invertito la progressione dell’Alzheimer nei topi, un risultato che accende la speranza per una potenziale cura di questa devastante forma di demenza negli esseri umani. Lo studio, pubblicato sulla rivista Signal Transduction and Targeted Therapy, descrive un approccio innovativo che non si concentra direttamente sui neuroni, ma ripara una componente critica del cervello responsabile di tenere lontane le tossine.

La chiave della scoperta risiede nel ripristino della barriera emato-encefalica, quella sorta di guardiano vascolare che protegge il cervello dalle sostanze dannose e regola il flusso sanguigno. Questa barriera, in condizioni normali, filtra efficacemente le sostanze indesiderate, ma nelle persone affette da Alzheimer si ostruisce o smette di rispondere correttamente agli intrusi, permettendo l’accumulo di proteine tossiche.

Il team guidato da Giuseppe Battaglia, neuroscienziato presso l’Institute for Bioengineering of Catalonia, ha sviluppato un metodo che sfrutta la nanotecnologia per riattivare il sistema di smaltimento naturale del cervello. “Pensiamo funzioni come una cascata: quando specie tossiche come l’amiloide-beta si accumulano, la malattia progredisce”, ha spiegato Battaglia. “Ma una volta che il sistema vascolare torna a funzionare correttamente, inizia a eliminare l’amiloide-beta e altre molecole dannose, permettendo all’intero sistema di recuperare il suo equilibrio”.

I ricercatori hanno creato nanoparticelle che imitano una proteina chiamata LRP1, una molecola normalmente responsabile di reagire alle tossine nella barriera emato-encefalica. Per lo studio, sono stati utilizzati topi geneticamente modificati per produrre più proteine amiloide-beta e mostrare un declino cognitivo significativo simile all’Alzheimer umano. Ogni topo ha ricevuto tre iniezioni del nuovo farmaco, e i ricercatori hanno osservato i cambiamenti nel comportamento e nell’attività cerebrale per sei mesi.

il modello di un cervello accompagnato da un neurone
il modello di un cervello accompagnato da un neurone (fonte: Unsplash)

I risultati sono stati sorprendenti. Un topo di 12 mesi (equivalente a un essere umano di 60 anni) che aveva ricevuto il trattamento, quando è stato rivalutato a 18 mesi (90 anni umani), aveva “recuperato il comportamento di un topo sano”, hanno scoperto gli scienziati. Le immagini al microscopio a fluorescenza hanno mostrato una drastica riduzione delle placche di amiloide-beta nel cervello dei topi trattati rispetto a quelli non trattati, evidenziando visivamente l’efficacia dell’intervento.

“Ciò che è notevole è che le nostre nanoparticelle agiscono come un farmaco e sembrano attivare un meccanismo di feedback che riporta questo percorso di eliminazione ai livelli normali”, ha affermato Battaglia. L’aspetto più sorprendente è che sono state necessarie solo tre iniezioni per invertire la progressione dell’Alzheimer nei topi, un protocollo significativamente più semplice rispetto ad altri approcci terapeutici attualmente in fase di studio.

L’approccio rappresenta un cambio di paradigma nel trattamento dell’Alzheimer. Invece di concentrarsi esclusivamente sulla rimozione delle placche amiloidi o sulla protezione diretta dei neuroni, questo metodo ripara l’infrastruttura vascolare del cervello, essenzialmente convincendo l’organo a tornare a uno stato di salute attraverso i propri meccanismi naturali di pulizia.

Come accade per tutti gli studi condotti su modelli animali, sarà necessario molto più lavoro prima che questo trattamento possa essere testato per l’uso negli esseri umani. Le differenze tra il cervello dei topi e quello umano, le complessità della sicurezza farmacologica e l’efficacia a lungo termine sono solo alcune delle sfide che attendono i ricercatori. Tuttavia, i risultati suggeriscono che questo approccio, che riattiva i sistemi di difesa naturali del cervello piuttosto che introdurre agenti esterni aggressivi, potrebbe rappresentare una strada promettente per una malattia che attualmente rimane incurabile.

 

 

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