Il 12 settembre 1975 usciva Wish You Were Here, il nono album in studio dei Pink Floyd. Le canzoni furono presentate in anteprima in un live cult a Knebworh, il 5 luglio dello stesso anno. A distanza di cinquant’anni, rimane uno dei dischi più amati e significativi della storia del rock. Dietro le sue melodie malinconiche e le sue critiche velate al mondo dello show business, si nasconde un’opera d’arte complessa, toccante, visivamente sorprendente. È il disco che, più di ogni altro, ha saputo trasformare l’assenza in un’emozione universale.
Dopo il successo colossale di The Dark Side of the Moon (1973), i Pink Floyd si ritrovarono smarriti. Roger Waters, mente lirica del gruppo, provò un senso crescente di disillusione verso l’industria musicale e, ancor di più, verso il modo in cui il successo aveva cambiato la band. È da questo malessere che nacque Wish You Were Here: un concept album che affronta quattro temi intrecciati — l’assenza, la perdita, l’alienazione e la mercificazione dell’arte.
Al centro del progetto, una figura silenziosa: Syd Barrett. Fondatore della band, chitarrista, frontman visionario e poi fantasma. Dopo un collasso psicologico dovuto in larga parte all’uso massiccio di LSD, Barrett fu allontanato dal gruppo nel 1968. La sua ombra aleggia su tutto il disco, e in particolare su Shine On You Crazy Diamond, la suite in nove parti che apre e chiude l’album.
Il 5 giugno 1975, mentre i Pink Floyd stavano registrando agli Abbey Road Studios, Barrett fece visita al gruppo. Era irriconoscibile: ingrassato, con la testa rasata, le sopracciglia assenti. Waters e Gilmour rimasero sconvolti. Quel momento – tragico, umano, irripetibile – è diventato una delle storie più struggenti del rock. Barrett ascoltò parte del disco a lui dedicato e commentò con distacco: «Mi sembra un po’ vecchio».
Come spesso accade nei lavori dei Pink Floyd, anche la confezione del disco divenne un messaggio. L’artwork fu affidato ancora una volta al genio creativo dello studio Hipgnosis, formato da Storm Thorgerson e Aubrey Powell. Il risultato è una delle copertine più iconiche del XX secolo.
Due uomini in abiti da business si stringono la mano in uno studio cinematografico a cielo aperto — uno dei due è avvolto dalle fiamme. L’immagine fu scattata ai Warner Bros Studios di Burbank, California, e realizzata con veri stuntman: Danny Rogers e Ronnie Rondell. Quest’ultimo prese realmente fuoco, rischiando seriamente di ustionarsi quando il vento spinse le fiamme verso il suo volto.
L’intera operazione visiva ruotava attorno al concetto di assenza e artificio. Il disco venne venduto in un involucro di plastica nera opaca, senza copertina visibile. L’unico simbolo era una stretta di mano meccanica: il gesto più umano, reso impersonale. Sulla retrocopertina, un venditore senza volto, senza polsi, senza caviglie — una figura deformata dall’uniforme e dal marketing.
Wish You Were Here è un album profondamente emotivo, ma non melodrammatico. È politico senza essere retorico. Apre e chiude con Shine On You Crazy Diamond, una lunga suite che incarna la nostalgia per Syd Barrett, ma che allude anche alla scomparsa dell’innocenza artistica.
Nel mezzo, tre brani costruiscono il cuore concettuale del disco:
- Welcome to the Machine: un incubo elettronico, freddo e meccanico. Rappresenta il viaggio del giovane artista che entra ingenuamente nell’industria discografica, per poi esserne inghiottito. Le sonorità sintetiche e claustrofobiche crearono un nuovo standard per la musica concettuale.
- Have a Cigar: un affresco grottesco del mondo musicale, cantato non da Waters o Gilmour, ma da Roy Harper, amico del gruppo. La frase «Oh by the way, which one’s Pink?» pronunciata da un discografico ignaro è diventata un simbolo della miopia dell’industria.
- Wish You Were Here: il brano più diretto e struggente. Suonato da Gilmour con una chitarra acustica filtrata da una radio AM, è un dialogo interiore tra il sé presente e quello smarrito. Non parla solo di Barrett: parla di chiunque sia stato “presente” una volta, e ora non c’è più. Il titolo, simile a quello di una cartolina, si trasforma in una dichiarazione d’amore malinconico.
Nonostante non fosse progettato per stupire come Dark Side, Wish You Were Here mostra una notevole complessità sonora. Le introduzioni ambientali, i synth minacciosi, i dettagli nascosti – come il violino di Stéphane Grappelli non accreditato nella title track – fanno del disco un’opera raffinata.
David Gilmour ha raccontato che, durante le registrazioni, il colpo di tosse udibile all’inizio del brano Wish You Were Here lo spinse a smettere di fumare. Anche questi piccoli dettagli fanno parte del fascino immortale dell’album.
L’album fu accolto con un successo immediato: primo posto in classifica nel Regno Unito e negli Stati Uniti, con oltre 20 milioni di copie vendute nel mondo. Ma il suo vero impatto si è visto negli anni successivi.
Molti musicisti lo citano come una delle massime espressioni del rock concettuale. Il modo in cui tratta la fragilità umana, l’alienazione e l’autenticità ha influenzato artisti di ogni generazione, da Radiohead a Steven Wilson.
Più di ogni altra cosa, Wish You Were Here continua a commuovere. Non perché racconta una storia, ma perché ne evoca una che tutti possiamo sentire: quella di chi non c’è più, di un passato che pesa, di un legame che rimane anche quando si spezza.
A cinquant’anni dalla sua pubblicazione, Wish You Were Here rimane un capolavoro che non ha perso un grammo del suo potere evocativo. È un album che parla senza alzare la voce, che urla la sua umanità in silenzio. È il tributo a un uomo perduto, ma anche un monumento alla musica che osa ricordare.
Più che un disco, è una domanda sospesa nell’aria: “Vorrei che tu fossi qui.” Chiunque abbia amato, perso o vissuto davvero, sa bene cosa significa.