La risposta è inequivocabile: sì, “Palazzina Laf” di Michele Riondino racconta una storia drammaticamente vera, uno dei casi di mobbing collettivo più clamorosi della storia italiana. Il film, presentato alla Festa del Cinema di Roma nel 2023, ricostruisce con fedeltà documentale una vicenda reale accaduta negli anni Novanta all’ILVA di Taranto, diventata il primo caso giuridico di mobbing riconosciuto in Italia.
L’ILVA di Taranto, lo ricordiamo, è stato il più grande complesso siderurgico d’Europa, fondato negli anni ’60 come simbolo del boom economico italiano e considerato strategico per l’economia nazionale. Per decenni ha dominato la produzione di acciaio, ma è diventata famosa per i gravissimi problemi ambientali e sanitari causati dalle sue emissioni inquinanti sulla città di Taranto. Principalmente, metalli pesanti e sostanze tossiche come
arsenico, cadmio, cromo e piombo che hanno causato molti morti.
La Palazzina LAF (acronimo di Laminatoio a Freddo) era una struttura in disuso dove operai e tecnici, durante l’orario di lavoro, erano riposti insieme, costretti all’inerzia, costretti a sentirsi oggetti anonimi, senza alcuna identità, isolati dal resto delle maestranze della fabbrica. Il caso esplose alla ribalta nazionale quando l’azienda decise di utilizzare questo edificio fatiscente come strumento di pressione psicologica sui dipendenti considerati scomodi.
I lavoratori confinati erano quelli che rifiutavano di abbandonare l’attività sindacale e quelli che respingevano la novazione, ovvero il declassamento da impiegato di alto livello professionale ad operaio. La strategia aziendale mirava a costringere questi dipendenti ad accettare condizioni peggiorative o a dimettersi volontariamente.

Il film è tratto dal libro “Fumo sulla città” dello scrittore Alessandro Leogrande, scomparso prematuramente nel 2017, che avrebbe dovuto partecipare anche alla realizzazione della sceneggiatura e a cui la pellicola è dedicata. La vicenda narrata affonda le radici in una documentazione minuziosa, composta da atti processuali, testimonianze dirette e materiali d’archivio.
La fonte principale della ricostruzione storica è costituita dal libro autobiografico “Palazzina LAF. Mobbing: la violenza del padrone” di Claudio Virtù, uno dei 79 lavoratori effettivamente confinati nella struttura. Virtù era uno di quei “confinati” che nel 1998 furono rinchiusi nell’edificio perché non vollero accettare le imposizioni della nuova proprietà del centro siderurgico tarantino.
La descrizione della Palazzina LAF non lascia spazio all’immaginazione grazie alla testimonianza diretta di Claudio Virtù. L’ingresso era costituito da un androne trascurato, le scale mostravano sui gradini l’impronta della scarpa nella polvere di minerale ferroso, le stanze erano trascurate con pareti annerite dalle polveri e dai fumi.
L’arredamento era scarno: due vecchie scrivanie, un tavolino ed alcune sedie su cui mettersi a sedere a turno, sedie pericolanti, scrivanie rotte, fili elettrici scoperti. Un degrado che faceva parte di una strategia precisa per demoralizzare i lavoratori.
La magistratura tarantina intervenne dopo le indagini dell’Ispettorato del lavoro. Il procuratore Francesco Sebastio denunciò la condizione di dipendenti rimasti privi di qualsiasi incarico o mansione in una situazione di ozio forzato ed alienante, in un ambiente avvilente ed offensivo per la dignità di un lavoratore.
Anche la Suprema Corte di Cassazione riconobbe la gravità del caso: la palazzina LAF rappresentava una minaccia, un luogo di pressione volto ad indurli a modificare in senso peggiorativo il proprio rapporto di lavoro. Il tribunale riconobbe le responsabilità penali e il danno causato ai lavoratori, definendo la struttura un “reparto-lager”.
La vicenda della Palazzina LAF ha rappresentato un precedente giuridico fondamentale per il riconoscimento del mobbing come reato, aprendo la strada a successive tutele legali per i lavoratori.