I fratelli Lyle ed Erik Menéndez uccisero i loro genitori la sera del 20 agosto 1989, nella casa di Beverly Hills a colpi di fucile. Un omicidio che scosse l’opinione pubblica americana e che tuttora è uno dei più famosi e controversi della storia criminale statunitense. La loro condanna per l’assassinio di José e Kitty Menéndez ha generato un dibattito pubblico ancora aperto sulle motivazioni che li hanno spinti a compiere un gesto così efferato.
Non è un caso, dunque, che Netflix abbia deciso di produrre Monsters – The Lyle and Erik Menendez story, secondo capitolo della serie true crime antologica – iniziata con il mostro di Milwaukee Jeffrey Dahmer e che proseguirà con Ed Gein – dedicata ai grandi casi di cronaca nera. La miniserie è disponibile da oggi, 19 settembre. Per cercare di ricostruire questa storia, però, iniziamo dal principio.
I Menendez
Cominciamo con il dire che, da un’osservazione esterna, nulla faceva supporre un’epilogo coì drammatico. Lyle ed Erik, infatti, provenivano da una famiglia apparentemente agiata e rispettabile. L’incarnazione stessa del sogno americano. Ma, come Philip Roth ha ampiamente descritto in Pastorale Americana, non bisogna mai fidarsi della luminescente apparenza di una famiglia perfetta.
Il padre José nasce a Cuba ma riesce ad emigrare negli Stati Uniti quando è solamente un adolescente, negli anni Cinquanta. I primi tempi vive nella soffitta della casa di un cugino, finché non ottiene una borsa di studio universitaria. Ed è proprio al college che incontra Mary Louise Anderson, una reginetta di bellezza che tutti chiamano Kitty. La coppia si sposa nei primi anni ’60 e si trasferiscono o a New York City, dove José si laurea al Queens College, Sono gli anni in cui passa da lavare i piatti a lavorare come giovane dirigente di successo nel mondo dello spettacolo. Motivo per cui la famiglia si trasferisce a Los Angeles.
A creare questo emblema di perfezione contribuiscono anche i due figli. Lyle, ad esempio, è un tennista e sembra destinato a una carriera brillante. Erik si rivela ancora più talentoso con la racchetta tanto da diventare un giocatore di livello nazionale Tuttavia, dietro le apparenze si nascondeva una realtà ben diversa. Il trasferimento a Los Angeles, infatti, inizia a mettere in evidenza delle discrepanze caratteriali e comportamentali. Erik prende parte a una serie di furti con scasso. Lyle, invece, si fa sospendere per un anno dalla Princeton University.
La notte del delitto
La situazione, dunque, prende una piega irreversibile la sera del 20 agosto 1989, José e Kitty Menéndez vengono trovati morti nella loro villa di Beverly Hills, uccisi da 15 colpi di due fucili da caccia calibro 12. I figli, Lyle ed Erik, all’inizio si presentano come vittime, affermando di aver scoperto i corpi dei genitori al loro ritorno a casa. I due, infatti, dichiarano di essere usciti per andare al cinema ma di aver fatto ritorno presto per prendere i documenti dimenticati a casa. Ed è in quel frangente, che stando alla loro ricostruzione, hanno trovato i copri dei genitori.
Le dichiarazioni, però, non convincono pienamente gli inquirenti. A questo, poi, si aggiungono anche una serie di comportamenti sospetti. I ragazzi, infatti, non agiscono erto come due figli rimasti improvvisamente orfani. Anzi. Nel giro di soli sei mesi riescono a spendere ben 700 mila dollari acquistando Rolex, Porsche una Jeep Wrangler.
Le prime confessioni
Ma come è stato possibile reperire le prove di quello che, a conti fatti, sembrava essere il delitto perfetto? A parlare sono stati gli stessi fratelli, ma non con la polizia. A dare inizio ad una catena di registrazioni è Erik. Il ragazzo, infatti, confessa il delitto al suo psicologo, il dottor Jerome Oziel, Questo, a sua volta, ne parla con Judalon Smyth, una donna con cui ha una relazione extraconiugale. Successivamente Oziel riesce a registrare la confessione di entrambi i fratelli. Ma a riportare tutto alla polizia è la sua amante. Dopo una lite, infatti, rivela agli agenti di avere prove riguardo la colpevolezza dei fratelli Menendez.
L’8 marzo, dunque, viene arrestato Lyle, mentre Erik, che in quel momento si trovava in Israele per un torneo di tennis, si costituisce alla polizia l’11 marzo. Per i successivi due anni, però, il processo è rimasto in sospeso visto che non si capiva l’uso effettivo delle registrazioni ottenute. Queste, infatti, potevano essere limitate dal segreto professionale. Nel 1993, però, la Corte Suprema della California stabilisce che due dei tre nastri potevano essere considerati idonei ed utilizzati come prova.
Il processo e la legittima difesa
I due imputati, dunque, si dichiarano colpevoli ma essenzialmente per legittima difesa. Il ritratto della famiglia perfetta, infatti, viene definitivamente distrutto durante il processo, evidenziando un ambiente violento e poco rassicurante. Stando a quanto raccontato dai due fratelli, infatti, sono stati lungamente molestati dal padre, Lyle dai 6 agli 8 ed Erik dai 6 ai 18. Per quanto riguarda la madre, invece, aveva lottato contro l’alcolismo e la tossicodipendenza. Due problemi che non le avrebbero permesso di proteggere i propri figli dalle violenze. Nonostante questo, comunque, i due fratelli vengono condannati all’ergastolo, da scontare in due prigioni diverse. Solo nel 2018 sono stati riuniti in quello di San Diego.