Il processo di successione del Dalai Lama rappresenta uno dei meccanismi più complessi e spiritualmente significativi del buddismo tibetano. Con l’attuale 14° Dalai Lama, Tenzin Gyatso, che compirà 90 anni il 6 luglio 2025, la questione della successione è diventata centrale nel dibattito internazionale per le ingerenze della Cina sulla questione.
Il Dalai Lama, lo ricordiamo, è il leader spirituale del buddismo tibetano e una figura simbolo della pace e della non violenza. Considerato la reincarnazione del bodhisattva della compassione, guida i fedeli nella pratica del Dharma.
Tradizionalmente, alla morte di un Dalai Lama, un consiglio di alti lama avvia la ricerca della sua reincarnazione. Questo processo prevede l’osservazione di segni, consultazioni con oracoli e l’analisi degli insegnamenti lasciati dal Dalai Lama stesso.

Il metodo tradizionale si basa sulla dottrina dello sprul sku (reincarnazione). Alla morte di un Dalai Lama, il successore, ancora bambino, veniva individuato da alcuni monaci in colui che era capace di riconoscere oggetti appartenuti al Dalai Lama defunto. Secondo la tradizione, questa capacità di riconoscimento costituisce la prova della reincarnazione.
Il Dalai Lama ha detto che il suo successore dovrà essere scelto secondo i “metodi tradizionali” del buddismo tibetano, ma ha specificato che a supervisionare il processo sarà esclusivamente il Gaden Phodrang Trust, l’organizzazione fondata da lui stesso, i cui rappresentanti dovranno consultare i capi della tradizione buddhista tibetana e i Protettori del Dharma. A questo pian si oppone la Cina, che dal 1950 controlla il Tibet. Nel 2011 il ministro degli esteri cinese aveva annunciato che l’elezione del prossimo Dalai Lama sarebbe avvenuta su scelta del governo di Pechino.
Il Dalai Lama ha elaborato varie possibilità sulla procedura di nomina del suo successore: una di queste è che potrebbe scegliere lui stesso la sua reincarnazione prima di morire e dunque nominare un suo erede spirituale mentre è ancora in vita.
Già nel lontano 1969 Sua Santità aveva dichiarato che il riconoscimento della reincarnazione del Dalai Lama era prerogativa esclusiva del popolo tibetano, mongolo e degli abitanti delle regioni himalayane. La posizione è chiara: il processo deve rimanere nelle mani della comunità tibetana e non subire interferenze politiche esterne.