Imane Fadil nata il 2 novembre 1984, era una modella 34enne di origini marocchine morta il 1 marzo 2019 a causa di una aplasia midollare dopo un ricovero in ospedale, ma per molto tempo si parlò di omicidio per avvelenamento. La ragazza era un’olgettina e quindi testimone chiave dell’accusa nel caso Ruby: aveva infatti più volte preso parte – come le altre ragazze – alle famigerate cene del bunga bunga presso la villa di Arcore di Silvio Berlusconi. “Mi hanno avvelenato” dichiarò quando venne ricoverata all’Humanitas il 29 gennaio del 2019 per poi morire il primo di marzo dopo una lenta agonia.
La ragazza aveva solo 25 anni quando iniziò a frequentare la casa di Silvio Berlusconi, all’epoca Presidente del Consiglio. Invitata da Emilio Fede e Lele Mora, Imane prese parte a ben otto di queste “cene eleganti” nel corso degli anni ma, dopo l’ultima, decise di recarsi in procura per denunciare ciò che accadeva durante le serate ad Arcore, meglio conosciute come bunga bunga. Raccontò al pm tutto ciò che aveva visto, dagli spogliarelli ai continui palpeggiamenti, dai travestimenti bizzarri ai pagamenti per l’intrattenimento, senza omettere nomi e cognomi dei partecipanti e delle altre olgettine (come Nicole Minetti, Barbara Faggioli e Iris Berardi). Le sue accuse vennero poi messe a verbale e ripetute durante il processo nel 2012. Imane Fadil divenne, così, una testimone chiave dell’accusa durante il processo Ruby, che la vide appunto come testimone nel corso del primo atto e come parte civile nel secondo; fu invece esclusa dal famoso Ruby ter, nonostante abbia sempre sostenuto di aver detto tutta la verità e di aver “respinto tantissimi tentativi di corruzione da parte di Silvio Berlusconi e di tutto il suo entourage”.
La decisione di porsi come testimone in questo processo nonché le cause civili (ad esempio contro Emilio Fede) e l’attenzione mediatica, finirono per devastare la ragazza, che cadde in una profonda crisi depressiva. Dichiarò infatti di non “riuscire neanche a uscire di casa, mi è stata fatta terra bruciata intorno: la gente pensava fossi una prostituta, ho perso gli amici e quei pochi lavoretti che avevo. Ho vissuto un periodo di forte depressione, piangevo sempre, ho anche perso i capelli a causa del forte stress“. Fino a quando, il 29 gennaio 2019, venne ricoverata all’Humanitas, morendo poi il primo di marzo dopo una lunga agonia fatta di gonfiori e dolori al ventre e di un’incapacità di formulare una diagnosi da parte dei medici. La procura di Milano aprì poi un’indagine per omicidio volontario, dopo avere scoperto che Imane aveva denunciato di essere stata avvelenata, rivelandolo anche al fratello e al suo avvocato.
Nel settembre del 2019 venne esclusa in via definitiva l’avvelenamento e fu individuata come causa della morte una rara forma di aplasia midollare che provoca una insufficienza di cellule staminali emopoietiche portando a un’insufficienza di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. Molto raramente è congenita, mentre quella acquisita – tramite virus o linfoma – colpisce in Europa circa 2 pazienti ogni milione di abitanti all’anno. Nel gennaio del 2021 la procura iscrisse nel registro degli indagati – come atto dovuto – i medici dell’Humanitas con l’accusa dii omicidio colposo, per non essere stati tempestivi nella diagnosi. In seguito, però, furono tutti assolti.
Nella sua ultima apparizione in Tribunale, Imane dichiarò che “per ciò che succedeva ad Arcore noi abbiamo pagato più di tutte le altre, cioè quelle che hanno deciso di farsi corrompere“. La ragazza aveva anche intenzione di scrivere un libro sulla sua storia: “Prima o poi tutti lo vedranno, prima o poi sarà pubblicato. Ho fiducia nella giustizia italiana e ho fiducia nel fatto che le cose stiano cambiando“, affermò. Ma, ovviamente, non fece in tempo.