Dopo recenti attacchi tra Israele e Iran, e le tensioni, per non parlare del coinvolgimento degli Stati Uniti, aumentano i timori di un allargamento del conflitto che potrebbe coinvolgere, direttamente o indirettamente, anche i Paesi europei. Fatti salvi gli ultimi sviluppi, con una possibile tregua dichiarata da Trump (anche se tecnicamente il conflitto continua) l’Italia, partner storico della NATO e presente con contingenti militari in diverse missioni all’estero, non è immune a questo scenario. La possibilità che le nostre forze armate vengano coinvolte in operazioni militari più estese solleva una domanda concreta e inquietante: se l’Italia entra in guerra, chi combatte?
Il tema, un tempo confinato ai manuali di diritto o alle lezioni di educazione civica, è oggi tutt’altro che astratto. L’Italia, in quanto membro dell’Alleanza Atlantica, ha assunto precisi obblighi in termini di cooperazione militare. Il nostro Paese ospita basi NATO, partecipa a missioni all’estero e ha già aumentato la spesa per la Difesa in linea con gli impegni internazionali. Tuttavia, un conflitto che coinvolgesse direttamente le nostre forze armate rappresenterebbe uno scenario radicalmente diverso.

Secondo l’articolo 11 della Costituzione italiana dichiara: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.” Ma questo principio, pur solenne, non significa neutralità assoluta. La stessa Carta prevede che l’Italia possa entrare in guerra in due casi: per legittima difesa, in base all’articolo 52, o per decisione delle Nazioni Unite, secondo l’articolo 11 stesso. In concreto, è il Parlamento a deliberare lo stato di guerra, e il Presidente della Repubblica ha il compito di dichiararla formalmente.
Oggi le forze armate italiane sono professionali, non esiste più la leva obbligatoria dal 2005. Esercito, Marina e Aeronautica contano circa 150.000 effettivi, compresi i Carabinieri con compiti di polizia militare. A questi si aggiungono riserve selezionate, formate da ex militari richiamabili in casi eccezionali. Ma se la scala del conflitto dovesse superare la capacità delle forze attive, cosa succederebbe?
Secondo la normativa vigente, in particolare il Codice dell’ordinamento militare (D. Lgs. 66/2010), è prevista la possibilità di richiamare in servizio i militari in congedo. In caso di estremo bisogno, si potrebbe ipotizzare la reintroduzione della leva obbligatoria, che rimane sospesa ma non abolita. Verrebbero richiamati i cittadini italiani tra i 18 e i 45 anni, con priorità per coloro che hanno già svolto il servizio militare. Tuttavia, un ritorno alla leva non sarebbe automatico: servirebbe una legge del Parlamento, e la decisione comporterebbe conseguenze sociali e politiche enormi.
Va ricordato che esistono anche possibilità di obiezione di coscienza, riconosciute dalla legge 230/1998, che consente ai cittadini contrari all’uso delle armi per motivi morali, religiosi o filosofici di svolgere un servizio civile alternativo. Ma in un contesto di guerra totale, anche queste norme potrebbero essere riviste.
Oggi, la prospettiva di un coinvolgimento diretto dell’Italia in un conflitto resta remota, ma non impensabile. E riflettere su chi combatterebbe davvero non è un esercizio di fantasia, ma una necessità civile.