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Home » Lifestyle » Moda » Che cos’è il Vanity Sizing e perché ci mette in crisi?

Che cos’è il Vanity Sizing e perché ci mette in crisi?

Il Vanity Sizing  disorienta i consumatori, altera la percezione corporea e contribuisce a una cultura dell’apparenza. Ecco cos'è.
Francesca FiorentinoDi Francesca Fiorentino1 Giugno 2025
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vestiti appesi
vestiti appesi (fonte: Unsplash)
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Il Vanity Sizing, noto anche come size inflation, è una strategia di marketing adottata da numerosi brand di moda che consiste nell’etichettare un capo di abbigliamento con una taglia inferiore rispetto a quella reale. Ad esempio, un paio di jeans che corrisponderebbe a una taglia 46 viene venduto come 44, o addirittura 42. L’obiettivo è quello di lusingare il cliente, spingendolo all’acquisto grazie alla sensazione gratificante di indossare una taglia più piccola.

Questo fenomeno è ben documentato e riguarda in particolare la moda femminile. Le taglie sono cambiate notevolmente nel tempo. Un abito che negli anni ’50 era etichettato come taglia 46 oggi, con le stesse misure, corrisponderebbe a una 42. Il cambiamento non è uniforme, varia da brand a brand, generando confusione e frustrazione nei consumatori.

Il Vanity Sizing è emerso negli Stati Uniti a partire dagli anni ’80, contestualmente all’aumento della media delle misure corporee nella popolazione. Per non alienare i clienti e sostenere un’idea positiva del proprio corpo, molte aziende hanno modificato le etichette delle taglie. Studi condotti da istituti come il Journal of Consumer Psychology (2011) hanno dimostrato che le persone che acquistano abiti con taglie “più piccole” riferiscono un maggiore senso di soddisfazione personale, a parità di vestibilità reale.

Sebbene il Vanity Sizing sia pensato per stimolare l’autostima, ha effetti collaterali significativi. Il primo è la mancanza di standardizzazione. Le taglie variano così tanto tra marchi che diventa impossibile sapere quale taglia acquistare senza provarla. Questo problema è particolarmente rilevante nell’e-commerce, dove l’assenza di prova fisica aumenta i resi, generando costi aggiuntivi per consumatori e aziende. E un aumento esponenziale di rifiuti (scatoloni, buste, nastri adesivi…) con tanti saluti alla sostenibilità.

Una felice donna curvy
Una felice donna curvy (fonte: Pexels)

Uno studio pubblicato su Apparel and Textile Research Journal ha rilevato che oltre il 40% dei resi nei negozi online è causato da discrepanze tra la taglia ordinata e quella realmente indossata. La confusione alimenta inoltre l’insicurezza nei consumatori, che spesso si trovano a oscillare tra due o tre taglie diverse a seconda del brand, senza sapere quale sia quella “corretta”.

Il Vanity Sizing non si limita a un disagio pratico. Molte donne riferiscono sentimenti di frustrazione o inadeguatezza quando una taglia che dovrebbe andare “di norma” non entra. La percezione del proprio corpo, fortemente influenzata dalle etichette, viene così distorta. Invece di rappresentare un aiuto, il numero sulla targhetta diventa uno strumento di pressione sociale e conformismo.

Questo meccanismo è particolarmente dannoso per le adolescenti, che stanno formando la propria identità corporea. L’associazione tra taglia piccola e valore personale può contribuire all’insorgere di disturbi alimentari e distorsioni dell’immagine corporea, come documentato dalla National Eating Disorders Association (NEDA).

Attualmente non esistono standard internazionali vincolanti sulle taglie. Alcuni paesi europei, come la Germania, hanno tentato di promuovere la standardizzazione con il sistema EN 13402, ma la sua adozione resta facoltativa. In Italia, la normativa UNI 11402 cerca di armonizzare le taglie secondo misure corporee reali, ma è scarsamente applicata.

C’è un problema di fondo della moda, però, ed è quello di non tener conto dell’effettiva diversità dei corpi umani. Al pari del Curve Washing, ovvero quando un’azienda millanta un’inclusività di taglie non reale, il vanity sizing indica che lo scopo principale dei brand sia vendere, non rendere belli e comodi gli acquirenti.

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