Lo scorso marzo 6 persone sono state condannate dal Tribunale di Palmi per violenza sessuale di gruppo ai danni di due ragazze minorenni di Seminara e Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria. Per loro le pene variano dai 5 ai 13 anni di reclusione, mentre altri 6 imputati sono stati assolti. Il giudice per le udienze preliminari Francesca Mirabelli ha emesso le sentenze al termine di un processo scaturito dall’operazione “Masnada” della polizia, avviata il 15 novembre 2023.
Il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria ha inoltre condannato altri due imputati, all’epoca dei fatti minorenni, a 4 anni di reclusione. Ma oltre alle condanne giudiziarie, emerge una storia parallela di violenza e isolamento: le famiglie delle vittime sono state ostracizzate dalla comunità, che si è schierata dalla parte degli aggressori, alcuni dei quali legati a famiglie della ‘ndrangheta.
Una delle due vittime, oggi 22enne, ha raccontato al Corriere della Sera l’inferno vissuto dopo la denuncia. Vive attualmente in una località segreta grazie all’intervento della Regione Calabria, dopo essere stata costretta ad abbandonare il suo paese. “Mi dicevano ‘Sei pazza. Ti devi ammazzare’. Mi hanno insultata, minacciata, picchiata, frustata. Ma io sono qui. Piuttosto che vivere nella menzogna avrei preferito morire. Tanto quella non era vita. Era la morte in vita”, racconta la giovane.
La ragazza ha trasferito la sua residenza solo da un paio di mesi: “Prima vivevo chiusa in casa, barricata. Mi svegliavo al mattino dicendomi ‘Oggi proverò a uscire’, ma poi non ce la facevo. Restavo a letto a piangere”. Accanto a lei è rimasta soltanto la madre. Gli altri membri della famiglia non solo l’hanno abbandonata, ma alcuni sono diventati i suoi persecutori.
“Mio fratello, l’altra mia sorella e i rispettivi compagni adesso hanno il divieto di avvicinarsi a me. Mia zia e mio cugino hanno il braccialetto elettronico: se si avvicinano il mio dispositivo suona”, spiega la vittima. Queste misure di protezione sono state disposte dalle autorità dopo che i parenti hanno minacciato, maltrattato e aggredito fisicamente la ragazza nel tentativo di costringerla a ritirare la denuncia contro gli stupratori.

“Mia zia, la sorella di mio padre, e suo figlio mi hanno anche picchiata. Mia zia mi ha frustata con una corda. Mi diceva che dovevo morire, che avrei fatto meglio a non nascere proprio“, racconta la giovane donna. La zia abitava vicino a loro e si affacciava regolarmente alla finestra urlando improperi, accusando la nipote di aver rovinato la reputazione dell’intera famiglia. “Se fosse stato vivo mio padre non si sarebbe permessa. Mi manca moltissimo mio padre”, aggiunge con tristezza.
La decisione di denunciare è arrivata solo quando la ragazza ha saputo che un’altra giovane aveva subito violenze simili. “Se non fosse venuta alla luce la storia dell’altra ragazza probabilmente non avrei mai trovato la forza di denunciare. Ma quando ho saputo cosa avevano fatto a lei, ho deciso di parlare”, spiega. Per anni aveva tenuto tutto dentro, paralizzata dalle minacce degli aggressori: “Mi dicevano ‘Se parli ammazziamo i tuoi familiari‘. Avevo il terrore”.
All’epoca dei fatti aveva un fidanzato a cui non aveva rivelato nulla delle violenze subite. “Infatti, quando lo ha saputo, mi ha lasciato. Subito”, racconta amaramente. Le violenze erano iniziate nel 2017, quando la ragazza aveva 17 anni, ma la denuncia ufficiale è arrivata solo dopo l’operazione Masnada, quasi cinque anni dopo.
La giovane esprime profonda gratitudine verso le forze dell’ordine che l’hanno sostenuta in questo percorso: “Ringrazio la polizia, i carabinieri. In particolare, la dirigente del commissariato di Palmi, Concetta Gangemi, e il mio poliziotto di fiducia, Francesco Prestopino. Senza i loro abbracci non ce l’avrei mai fatta. Sono stati la mia forza. Non li ringrazierò mai abbastanza”.
La storia dell’altra vittima continua a essere altrettanto dolorosa. La ragazza frequenta una scuola dove sono presenti anche due dei condannati in primo grado, che all’epoca dei fatti erano minorenni. “Ora se li ritrova lì ogni giorno. Così rivive tutto, in continuazione. Mi domando: ma come è possibile?”, si chiede la 22enne, evidenziando una delle contraddizioni più drammatiche di questa vicenda.
Il caso di Seminara e Oppido Mamertina ha portato alla luce non solo le violenze sessuali subite dalle due ragazze, ma anche un sistema di omertà e pressioni che ha trasformato le vittime in colpevoli agli occhi della comunità. Una dinamica che rivela quanto sia ancora radicato in certi contesti il codice del silenzio, dove denunciare un crimine diventa un atto più grave del crimine stesso, soprattutto quando gli aggressori sono legati a famiglie di potere locale.



