Il 13 giugno 1981, la morte del piccolo Alfredo “Alfredino” Rampi, precipitato in un pozzo artesiano vicino Roma, segnò un punto di svolta nel rapporto tra i media e la cronaca nera. Per 18 ore consecutive, oltre 21 milioni di italiani rimasero incollati alla televisione, in una copertura mediatica che trasformò una tragedia familiare in un evento collettivo di portata nazionale. Per la prima volta nella sua storia, la Rai decise di trasmettere in presa diretta le fasi concitate delle operazioni di soccorso, inseguendo la speranza di un lieto fine. Ma, con il passare delle ore, l’attenzione si spostò sulla sofferenza, fino alla morte del bambino. Un momento umanamente tragico che si trasformò in un punto di svolta per i media.
L’episodio, infatti, inaugurò la cosiddetta tv del dolore, aprendo la strada a programmi che da allora avrebbero normalizzato l’esposizione di eventi tragici (talk show pomeridiani, aggiornamenti continui su incidenti e cronaca). Pur nato da un desiderio genuino di fare cronaca in diretta e di aggiornare più possibile il pubblico, il fenomeno sollevò interrogativi su limiti etici e sull’impatto psicologico di un evento del genere sui telespettatori. Un aspetto delicato, infatti, riguarda la stretta tempistica con cui la Rai scelse di non interrompere le dirette.

Nonostante fosse evidente che la situazione di Alfredino stava peggiorando, il bambino era stremato, la comunicazione con lui si faceva sempre più difficile e i soccorsi apparivano inefficaci, la trasmissione proseguì.
Secondo alcune ricostruzioni, persino alcuni dirigenti dell’Emittente di Stato erano combattuti: da un lato il dovere di informare, dall’altro il rischio di spettacolarizzare la sofferenza. Alla fine si decise di andare avanti, portando nelle case degli italiani le voci straziate dei genitori, Franca e Ferdinando Rampi, il tentativo di salvataggio a opera di Angelo Licheri e l’agonia in diretta, fino all’epilogo tragico.
Sul piano istituzionale, infine, la confusione operativa e la mancanza di coordinamento tra volontari, speleologi e vigili del fuoco evidenziarono l’assenza di un sistema efficiente di gestione delle emergenze. Solo pochi giorni dopo la tragedia, si avviò la creazione del Centro Alfredo Rampi, un passo che avrebbe preparato il terreno per l’istituzione della Protezione Civile, senza dubbio uno dei nostri pilastri sociali.